ROBBEN FORD Pure
A tu per tu con uno dei maestri del suono!
di Francesco Sicheri
01 luglio 2021
intervista
Robben Ford
Robben Ford
Pure
Il Maestro è tornato, ed è più in forma che mai. Robben Ford celebra il suo incredibile viaggio chitarristico con il nuovo "Pure", primo album completamente strumentale dagli anni ‘90, lavoro nel quale la chitarra si eleva a massima espressione della comunicazione musicale.
Classe 1951, maestro improvvisatore tra i più venerati, interprete di uno dei suoni di chitarra elettrica più idolatrati della storia, più semplicemente: Robben Ford.
Il 27 agosto il Maestro Ford torna a farsi sentire con Pure, che non è soltanto un nuovo album a suo nome, ma è anche il suo primo album strumentale dal 1997 ad oggi.
Le nove tracce di Pure - come ci ha raccontato Ford nella chiacchierata che segue - sono il risultato di un tuffo esplorativo nella chitarra e nelle sue possibilità sonore, una sorta di ritorno al cuore dello strumento che ha accompagnato Ford per tutta la sua carriera.
Robben è passato un po’ di tempo dalla nostra ultima chiacchierata, come stai? Come vanno le cose ora che sembra di vedere una luce in fondo al tunnel del COVID?
Avete ragione, è passato qualche anno dall’ultima volta. Sono felice di essere qui con voi oggi. Io sto molto bene, grazie. Sono finalmente vaccinato e qui nell’area di Nashville ormai tutto è tornato a quella che potremmo definire la “normalità”. Non è niente male la sensazione di poter uscire di casa e andare ovunque si voglia, senza dover indossare una maschera. Devo dire che mi sto godendo ogni minuto di questa “novità”.
Oggi siamo qui perché ad agosto uscirà "Pure", il tuo nuovo album in studio, che è anche il tuo primo album completamente strumentale dal 1997, anno in cui uscì "Tiger Walk". Cosa ti ha fatto propendere per un nuovo lavoro strumentale? Qual è stato il motivo che ha fatto scattare la molla?
Anzitutto direi che un aspetto fondamentale di questa decisione è stato il fatto che negli ultimi anni ho lavorato a molta musica strumentale insieme ad altri artisti. Ho fatto due album con Bill Evans ed inoltre proprio prima che scoppiasse il trambusto del COVID avevo iniziato a lavorare su del materiale strumentale per delle produzioni che avevo preso in carico qui a Nashville. Quando la pandemia ha fermato tutto mi sono reso conto che la mia mente era già partita a lavorare in quella direzione, ed inoltre aveva iniziato a tornare in maniera molto più specifica sulla chitarra e sulle possibilità sonore dello strumento.
Una sorta di ritorno alla base, potremmo dire…
Esattamente. Durante la pandemia ho scoperto nuovi aspetti del suonare quello che è da sempre il “mio” strumento. Una sorta di nuova vita con una compagna che conosco da sempre, non so se riesco a rendere l’idea…
Ci riesci molto bene, in realtà. Sembra anche essere una condizione molto stimolante nella quale lavorare.
Infatti è stato così. Proprio grazie a questo rinnovato spirito ho proseguito su quella scia di scrittura per materiale strumentale che aveva preso il via con Bill e con gli altri artisti con i quali stavo collaborando prima della pandemia. Devo dire, inoltre, che non potendomi esibire dal vivo, la mia creatività si è allontanata in maniera naturale dalla scrittura di brani con testo e voce. L’album ha cominciato quindi a prendere forma nella mia testa - spesso va in questo modo - come una sorta di entità sonora da scoprire. Solitamente nel tempo in cui lavoro all’album questa entità cambia molto, ma è proprio quel processo di scoperta interna all’album stesso a stimolarmi ogni volta di più.
Pensi di aver scoperto, o ri-scoperto, aspetti del tuo playing e del tuo essere chitarrista grazie a questo rinnovato interesse per la chitarra elettrica strumentale?
Sicuramente sì, anche se non sono sicuro di essere in grado di esporre il tutto in maniera coerente. Ci proverò comunque (ride). Anzitutto posso dire che ascoltando molta musica indiana nel mio tempo libero, ho voluto provare ad incanalare quel tipo di approccio alla composizione. Pure, il brano che dà il titolo all’album, è infatti un raga trasposto in una chiave che molto più simile a ciò che ho sempre fatto con la mia musica strumentale.
Pure è sicuramente uno dei brani più intraprendenti dell’album, sei d’accordo?
Senza dubbio. Si tratta di una forma raga rivisitata in chiave occidentale, potremmo dire. Proprio parlando di Pure vi posso dire che è stato molto bello trasportare le nozioni principali della musica indiana nella mia musica. Mi ha riportato con la mente a quello che facevo quando imparavo a suonare il blues. Da autodidatta quale sono, ho imparato il blues a partire dalla pentatonica. Dopo aver imparato le note della pentatonica, le ho ripetute lungo tutto il manico dello strumento, e solo successivamente ho iniziato ad affacciarmi all’armonia che sottende quel genere. Un giorno - più avanti nel tempo - ho scoperto che Mike Bloomfield usava la sesta maggiore così come facevano BB King e Albert Collins, ed a quel punto ho iniziato a farlo anche io, inserendo quel tipo di “colore” nella mia palette sonora. Allo stesso modo, quando il mio interesse per il jazz continuava a crescere ho sentito il bisogno di incorporare elementi della scala alterata nel mio playing, e per farlo ho semplicemente comprato un libro che mi insegnasse a capire su quali accordi lavorassero quel tipo di scale.
Vi racconto tutto questo per quale motivo? Perché anche con la musica indiana ho fatto partire tutto dall’imparare delle scale.
In pratica utilizzi ogni “step” della scala, ogni nota (se vogliamo), come delle porte sull’armonia e sulle concatenazioni e successioni di accordi?
Perfetto, io stesso non avrei saputo dirlo meglio. L’idea è proprio quella di vedere le note della scala come delle porte di collegamento sugli accordi che stanno “sotto la scala”. Si potrebbe pensare che partire dagli accordi e dall’armonia renda tutto più semplice, in quanto le scale sono poi legate agli accordi di fondo, ma per me è sempre stato più facile visualizzare il tutto attraverso le scale.
l'articolo continua...
Classe 1951, maestro improvvisatore tra i più venerati, interprete di uno dei suoni di chitarra elettrica più idolatrati della storia, più semplicemente: Robben Ford.
Il 27 agosto il Maestro Ford torna a farsi sentire con Pure, che non è soltanto un nuovo album a suo nome, ma è anche il suo primo album strumentale dal 1997 ad oggi.
Le nove tracce di Pure - come ci ha raccontato Ford nella chiacchierata che segue - sono il risultato di un tuffo esplorativo nella chitarra e nelle sue possibilità sonore, una sorta di ritorno al cuore dello strumento che ha accompagnato Ford per tutta la sua carriera.
Robben è passato un po’ di tempo dalla nostra ultima chiacchierata, come stai? Come vanno le cose ora che sembra di vedere una luce in fondo al tunnel del COVID?
Avete ragione, è passato qualche anno dall’ultima volta. Sono felice di essere qui con voi oggi. Io sto molto bene, grazie. Sono finalmente vaccinato e qui nell’area di Nashville ormai tutto è tornato a quella che potremmo definire la “normalità”. Non è niente male la sensazione di poter uscire di casa e andare ovunque si voglia, senza dover indossare una maschera. Devo dire che mi sto godendo ogni minuto di questa “novità”.
Oggi siamo qui perché ad agosto uscirà "Pure", il tuo nuovo album in studio, che è anche il tuo primo album completamente strumentale dal 1997, anno in cui uscì "Tiger Walk". Cosa ti ha fatto propendere per un nuovo lavoro strumentale? Qual è stato il motivo che ha fatto scattare la molla?
Anzitutto direi che un aspetto fondamentale di questa decisione è stato il fatto che negli ultimi anni ho lavorato a molta musica strumentale insieme ad altri artisti. Ho fatto due album con Bill Evans ed inoltre proprio prima che scoppiasse il trambusto del COVID avevo iniziato a lavorare su del materiale strumentale per delle produzioni che avevo preso in carico qui a Nashville. Quando la pandemia ha fermato tutto mi sono reso conto che la mia mente era già partita a lavorare in quella direzione, ed inoltre aveva iniziato a tornare in maniera molto più specifica sulla chitarra e sulle possibilità sonore dello strumento.
Una sorta di ritorno alla base, potremmo dire…
Esattamente. Durante la pandemia ho scoperto nuovi aspetti del suonare quello che è da sempre il “mio” strumento. Una sorta di nuova vita con una compagna che conosco da sempre, non so se riesco a rendere l’idea…
Ci riesci molto bene, in realtà. Sembra anche essere una condizione molto stimolante nella quale lavorare.
Infatti è stato così. Proprio grazie a questo rinnovato spirito ho proseguito su quella scia di scrittura per materiale strumentale che aveva preso il via con Bill e con gli altri artisti con i quali stavo collaborando prima della pandemia. Devo dire, inoltre, che non potendomi esibire dal vivo, la mia creatività si è allontanata in maniera naturale dalla scrittura di brani con testo e voce. L’album ha cominciato quindi a prendere forma nella mia testa - spesso va in questo modo - come una sorta di entità sonora da scoprire. Solitamente nel tempo in cui lavoro all’album questa entità cambia molto, ma è proprio quel processo di scoperta interna all’album stesso a stimolarmi ogni volta di più.
Pensi di aver scoperto, o ri-scoperto, aspetti del tuo playing e del tuo essere chitarrista grazie a questo rinnovato interesse per la chitarra elettrica strumentale?
Sicuramente sì, anche se non sono sicuro di essere in grado di esporre il tutto in maniera coerente. Ci proverò comunque (ride). Anzitutto posso dire che ascoltando molta musica indiana nel mio tempo libero, ho voluto provare ad incanalare quel tipo di approccio alla composizione. Pure, il brano che dà il titolo all’album, è infatti un raga trasposto in una chiave che molto più simile a ciò che ho sempre fatto con la mia musica strumentale.
Pure è sicuramente uno dei brani più intraprendenti dell’album, sei d’accordo?
Senza dubbio. Si tratta di una forma raga rivisitata in chiave occidentale, potremmo dire. Proprio parlando di Pure vi posso dire che è stato molto bello trasportare le nozioni principali della musica indiana nella mia musica. Mi ha riportato con la mente a quello che facevo quando imparavo a suonare il blues. Da autodidatta quale sono, ho imparato il blues a partire dalla pentatonica. Dopo aver imparato le note della pentatonica, le ho ripetute lungo tutto il manico dello strumento, e solo successivamente ho iniziato ad affacciarmi all’armonia che sottende quel genere. Un giorno - più avanti nel tempo - ho scoperto che Mike Bloomfield usava la sesta maggiore così come facevano BB King e Albert Collins, ed a quel punto ho iniziato a farlo anche io, inserendo quel tipo di “colore” nella mia palette sonora. Allo stesso modo, quando il mio interesse per il jazz continuava a crescere ho sentito il bisogno di incorporare elementi della scala alterata nel mio playing, e per farlo ho semplicemente comprato un libro che mi insegnasse a capire su quali accordi lavorassero quel tipo di scale.
Vi racconto tutto questo per quale motivo? Perché anche con la musica indiana ho fatto partire tutto dall’imparare delle scale.
In pratica utilizzi ogni “step” della scala, ogni nota (se vogliamo), come delle porte sull’armonia e sulle concatenazioni e successioni di accordi?
Perfetto, io stesso non avrei saputo dirlo meglio. L’idea è proprio quella di vedere le note della scala come delle porte di collegamento sugli accordi che stanno “sotto la scala”. Si potrebbe pensare che partire dagli accordi e dall’armonia renda tutto più semplice, in quanto le scale sono poi legate agli accordi di fondo, ma per me è sempre stato più facile visualizzare il tutto attraverso le scale.
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Quindi, tornando ad esempio ai tempi in cui ti avvicinavi al blues, non sei mai partito da un album replicando lick o frasi “fondamentali” di un dato chitarrista?
Molto raramente. Ovvio, con BB King era impossibile non voler imparare qualcosa nota per nota, ma la mia mentalità è sempre stata: “Ok, hai imparato questa scala? Suonala, suonala a più non posso e su tutta la lunghezza del manico”. Un altro motivo per il quale questo approccio mi ha aiutato molto, è che riportando la scala lungo tutto il manico della chitarra ho avuto subito accesso a tutti i punti di contatto tra le varie forme nelle quali poter suonare la stessa scala.
Ed è un approccio molto utile con la musica indiana.
Esatto! Tornando a Pure ed alla musica indiana, ricordo di aver ascoltato un raga che mi ha appassionato molto e di aver successivamente deciso di volerlo imparare. La prima cosa che ho fatto è stata cercare di intuire la scala portante del pezzo. Successivamente non ho fatto altro che rivisitare quel tipo di scala per riportarla nel brano che iniziava a formarsi nella mia mente. La particolarità di quel raga che avevo ascoltato è che si poteva ricondurre alla tonalità di Mi minore, ma - come spesso succede nella musica indiana - la scala suonata era caratterizzata da terza minore, quarta aumentata, sesta e settima maggiori. Dopo aver riportato questi “valori”, se così vogliamo chiamarli, del brano sulla chitarra, ho continuato a suonare come se non conoscessi più nient’altro. Questo è un altro aspetto importante del mio apprendimento, perché la ripetizione - talvolta ossessiva - di un concetto musicale, mi permette di far sì che permei nelle dita, per poi richiamarlo con la mente quando necessario.
Riguardo alla musica indiana, e soprattutto a proposito delle sue caratteristiche “armonico-tonali”, non è raro che musicisti jazz del tuo calibro finiscano per invaghirsi di determinate sonorità. Qual è la principale motivazione dietro questo tipo di attrazione, secondo te?
Bella domanda, non sono sicuro di avere una risposta definitiva. Penso che la musica indiana, rispetto a quanto conosciamo come “occidentale”, offra un tipo di movimento diverso all’interno dello stesso concetto di armonia. Anzitutto non si parla più di accordi, ma di scale che determinano gli ambiti armonici. Anche lo stesso concetto di tonalità si spegne un po’ in favore di “spazi” armonici. Le scale, a loro volta, divengono ulteriormente interessanti perché di solito hanno due diversi sviluppi, uno per la fase ascendente, ed un altro per la loro fase discendente. Questo si va ad aggiungere a quell’aspetto già di per sé magico che sono i microtoni, elemento fondamentale della musica indiana ed in generale di culture non occidentali.
Forse è proprio in quelle che potremmo chiamare "nuance", che si creano tra le note ad affascinare così tanto noi occidentali, più legati invece a successioni di note create su intervalli ben definiti.
Sono d’accordo, ed a questo aggiungerei un altro aspetto che per la musica indiana è fondamentale, ovvero la spiritualità. Sapete, io adoro Miles Davis. Ho ascoltato la sua discografia milioni di volte, ed il mio periodo preferito di Miles è quello con Tony Williams, Ron Carter, Herbie Hancock e Wayne Shorter, nello specifico prima che Miles introducesse gli strumenti elettrici. Se ascoltiamo album come Miles Smiles - che probabilmente è il mio album preferito di Miles - il blues è quasi completamente annullato sul piano teorico, ma è totalmente presente sul versante spirituale. Persone come Miles avevano sempre il blues nella loro musica, anche quando non lo si sentiva, e questo tipo di approccio è strettamente legato al tipo di spiritualità che si innesca e instaura con la musica indiana.
Ascoltando i brani dell’album, "Balafon" è un’altra di quelle tracce che riesce a colpire per la particolarità del suo andamento... Ed anche per un mood che è a metà tra il dolce e l’inquisitore. C’è qualcosa di particolare dietro al modo in cui è nato questo brano?
Sicuramente è molto particolare che abbiate nominato Balafon subito dopo aver parlato di Pure. Lo dico perché, voi non potevate saperlo, ma sono state le prime due tracce che ho scritto per l’album. Balafon è uno di quei brani che resteranno nella mia mente perché sono diversi dal modo in cui sono solito scrivere. Anzitutto il tema d’apertura, o meglio la melodia portante del brano, è una melodia “accordiale”. Si tratta di uno di quei temi musicali che intrecciano accordi e linee melodiche in un unico modo di parlare, ed è un tipo di elemento musicale al quale ricorro veramente di rado. Non che non mi piaccia, ma non è il modo in cui sono solito suonare. Nel momento in cui sono incappato in quel tema ed in quella melodia, stavo cercando altro. Nello specifico stavo suonando sperando di trovare un buon riff dal tiro funk - che poi ho comunque inserito nella terza sezione del brano - e sono accidentalmente finito per suonare quella che è diventata la melodia di Balafon. Come vi ho detto, solitamente non suono e non scrivo melodie di questo tipo, ma con Pure ho voluto scrivere un album che mi aiutasse a spingermi oltre i miei confini chitarristici.
In quali modi hai portato avanti questa “missione”, se così vogliamo chiamarla? Quali erano le barriere che volevi superare?
Stavo cercando suoni e melodie diverse, ecco come torna in gioco Balafon. Volevo capire dove la mia chitarra potesse arrivare in termini di spazi sonori, che non è qualcosa di “usuale” per me. Sono conscio del fatto che per la maggior parte della mia carriera ho scritto canzoni, brani guidati dalla melodia, e che potessero incorporare una parte cantata. La chitarra per la maggior parte della mia carriera è stato uno strumento di accompagnamento ritmico e - in sezioni apposite - di improvvisazione. Con Pure ho voluto provare ad esplorare un po’ di più il suono delle corde, i bending e tutto ciò che deriva dalla combinazione di corde e pickup. Penso che nel disco ci siano momenti di introspezione chitarristica che mi sono concesso in per la prima volta soltanto in questa occasione.
Vogliamo chiamare "Pure" una dichiarazione romantica per lo strumento che ti ha accompagnato in tutti questi anni?
Sì, direi che è calzante come definizione. Nella mia carriera ho sperimentato molti aspetti della composizione e della produzione. Le tastiere hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia musica per molti anni, ma è ovvio che la chitarra sia sempre stata la controparte strumentale della mia voce. Dopo tanti anni forse era arrivato il momento di darle più spazio (ride).
Con un obiettivo così chiaro in mente, come hai scelto le chitarre da utilizzare per registrare "Pure"?
Solitamente l’ispirazione iniziale detta anche quello che andrò a utilizzare, ma devo dire che per questo album ho variato alcune cose in corso d’opera. Ad ogni modo è sempre il brano a chiamare lo strumento necessario. Prendiamo ad esempio White Rock Beer… 8 Cents...
Ti dobbiamo interrompere, ma il motivo è valido. Sai che proprio "White Rock Beer… 8 Cents" farà letteralmente impazzire tutti quelli che da anni ti seguono cercando di arrivare ad un suono simile al tuo?
Ne avevo il sentore quando ho chiuso il mastering (ride). Direi che quello è un brano che rientra in ciò che potremmo definire il mio “stile”, se ma ce ne sia soltanto uno. Prendiamo però proprio quel brano come esempio. White Rock Beer… 8 Cents è uno shuffle che richiama il modo in cui gli inglesi hanno rivisitato gli strumentali di gente come Freddie King. Nel momento in cui ho scritto quel brano ho capito subito che avrei dovuto assolutamente suonarlo con una Les Paul. Il fatto che io possieda qualche ottima Les Paul - come la Burst del ‘59 - ha reso anche molto facile la scelta, ma era un brano che aveva necessariamente bisogno di quel suono pieno e ricco. Balafon invece, per tornare ad un brano del quale abbiamo parlato prima, è nata sulla mia vecchia Epiphone Riviera, ma nel corso delle registrazioni ho deciso di ri-suonarla con una Gibson 355 del 1964. Si tratta di una chitarra che ho modificato togliendo il ponte e la leva del vibrato e sostituendo il tutto con uno Stop Tailpiece, che preferisco perché rende lo strumento più “suonabile” per me… Non so come descrivere la sensazione, ma rispetto al ponte mobile le corde sembrano gestire la tensione in un modo più “morbido” e accomodante.
E cosa ci dici invece del riff portante di "Balafon", quello di cui parlavamo prima? Certamente non è una 355...
Quella è inconfondibilmente una Telecaster… Anzi quelle sono due Telecaster. Il riff è formato da tre tracce diverse, una è una Telecaster del ‘62, l’altra una Telecaster del ‘52, e nel mezzo c’è una traccia di chitarra acustica - una Gibson B52 - che mi serviva per dare “spazio” al riff. Sempre su Balafon ho registrato diverse parti con la mia Gibson SG del 1964.
La SG è uno strumento che fa sempre piacere vederti imbracciare, soprattutto perché non è quella chitarra che la maggior parte dei musicisti assocerebbero al tuo sound…
Strano ma vero. Strano perché nei miei album ho sempre registrato moltissimo con la SG. Ne ho avute diverse nel corso degli anni, e le ho sempre usate molto. Dal vivo però, per qualche motivo, ho utilizzato molto più di frequente altri strumenti. In anni recenti però ho fatto diversi tour quasi interamente con le mie due SG, una del ‘63 ed una del ‘64.
Un’altra chitarra che molti non si aspettano di vedermi suonare è forse la Gibson Les Paul Special che ho usato per la maggior parte delle ritmiche di questo nuovo album. Ad ogni modo ho esplorato molto i suoni della SG nel corso degli anni, e l’ho fatto ancora di più di recente.
Cos’è che ti ha portato a usarla così diffusamente nei tuoi album?
Penso sia l’attacco stupendo e legnoso che ha il pickup al ponte. Il corpo della SG è praticamente lo stesso di una Les Paul, ma è molto più stretto e leggero, e pertanto risuona anche in modo più evidente. Credo che questo aiuti il pickup al ponte ad avere quel suo attacco così distintivo. Se poi si passa al pickup al manico e si utilizza un amplificatore dal basso wattaggio, ma tirato ad alto volume, allora la SG tira fuori quel suo modo di rispondere sulle basse frequenze che sembra quasi dire “umpf” ogni volta che si plettra.
Sei anche tu - come altri tuoi illustri colleghi - dell’avviso che la SG condivida con la Telecaster moltissime caratteristiche, soprattutto per quanto riguarda la risposta alla plettrata e l’attacco?
Senza ombra di dubbio. A dire il vero è qualcosa su cui ho lavorato per tutta la mia vita sino ad ora, e continuo a lavorarci. Su dischi come The Inside Story ricordo che suonavo una 335, ed ai tempi ero rimasto molto affascinato da Eric Gale… Senza la “s” finale, altro chitarrista, ormai scomparso purtroppo. Gale suonava con una L5 e sono abbastanza sicuro che lui usasse il plettro, ma quello che mi aveva stupito molto del suo playing era proprio l’attacco che riusciva a ottenere, con e senza plettro. Ho lavorato per tutta la mia vita cercando di migliorare proprio quell’aspetto della mano destra, ovvero il modo in cui la nota “prende il via” dallo strumento, o - se vogliamo - l’attacco.
Ci sono chitarristi in tutto il mondo che hanno letteralmente speso cifre stratosferiche per ottenere un suono simile a quello che hai reso famoso nel corso degli anni. Sto parlando di quel suono Dumble che per molti è reso al meglio su album come "Robben Ford & The Blue Line" ma che proprio in "Pure" sembra tornare in brani come White Rock Beer… 8 Cents. Quanto del lavoro sull’attacco ha a che fare con quel tipo di suoni?
Semplicemente è tutto quello su cui bisogna lavorare. Un Dumble riesce sicuramente a enfatizzare certi aspetti del playing, ma bisogna prima lavorare sul modo di plettrare e sul come far partire la nota. Su Pure ho lavorato moltissimo su questo specifico aspetto della mia tecnica chitarristica. Onestamente non sono mai stato interessato dall’andare veloce o dall’eccesso di virtuosismi, perché credo che in quel modo si perda per strada molto del cuore espressivo della chitarra. Il suono che molti mi attribuiscono, e che celebrano molto più di quanto faccia io (ride), è un suono molto “espressivo”, e con ciò intendo che è un suono che vuole far parlare la chitarra. Il segreto sta nelle sfumature, e non è un caso che molti riescano ad avvicinarsi allo stesso tipo di sonorità anche con della strumentazione diversa.
In chiusura vuoi dirci quali amplificatori hai utilizzato per "Pure"?
Certamente, e vi stupirò con effetti speciali. Per farlo devo partire dall’album precedente, Purple House. Quell’album - mi è stato detto più volte - incarna quasi alla perfezione quello che la gente considera il “mio sound”. Beh, su quell’album non c’è neanche una traccia registrata con i miei Dumble. Iniziate a capire dove voglio andare a parare quando dico che il segreto sta nel lavorare sul tocco e sull’attacco? Su Purple House ho registrato quasi tutto con un Fender Pro Reverb dei primi anni ‘60 e da lì in poi è iniziato un mio personale viaggio alla riscoperta di amplificatori dal basso wattaggio. Questo perché lavorare con Casey Wasner, il proprietario del Purple House Studio, mi ha portato a capire che non avevo sempre bisogno di troppa potenza per ottenere ciò che volevo. Poco tempo dopo ho conosciuto Phil Bradbury, un gentiluomo che costruisce amplificatori stupendi sotto il nome di Little Walter Amps. Su Pure ho utilizzato quasi esclusivamente i suoi amplificatori. Phil costruisce anche amplificatori più potenti, ma il suo 15watt è veramente un amplificatore plug & play. Volume al massimo, toni completamente aperti e non serve molto altro. Il brano Pure, ed in particolare la melodia portante che fa da apertura all’album, è il perfetto esempio della mia SG del 1964 con il Little Walter King Arthur da 15 watt. Invece l’assolo del brano Pure l’ho registrato con un King Arthur da 50 watt ed una PRS McCarty, che è l’unico strumento a comparire un’unica volta in tutto l’album.
Solitamente suonando con amplificatori dal basso wattaggio, settati con il volume molto alto, si gioca spesso con il volume della propria chitarra. Vale anche per te?
Nah, non fa per me. Nel 99% dei casi il volume del mio strumento è sempre completamente aperto. Lavoro sui toni per smussare di tanto in tanto le alte frequenze, ma il volume è sempre al massimo.
Robben, come sempre, è stato un infinito piacere fare quattro chiacchiere con te e assorbire un po’ del tuo sapere. Siamo felicissimi di averti nuovamente sulla nostra copertina e non vediamo l’ora di vederti ancora una volta dal vivo nel nostro paese.
Mi sono divertito molto, è stata una bellissima chiacchierata. Non temete, l’Italia è sempre un passaggio obbligatorio per i miei tour, e anche il prossimo non farà eccezione. Per ora vi ringrazio del supporto e per tutto quello che fate.
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