Sregolatezza e antipatie: IL RITORNO DEGLI OASIS
Esattamente quindici anni dopo il debutto supersonico di Definitely Maybe (1994) il Britpop è ormai acqua passata ma gli Oasis no e, anche se hanno perso negli anni compagni e spirito degli esordi, sono ancora in grado di riempire gli stadi e le classifiche. Nonostante la faida continua fra i fratelli-coltelli Noel e Liam Gallagher. Il 28 agosto 2009 la band deve esibirsi al Rock En Seine di Parigi ma la violenta battaglia di frutta, nata forse per motivi di denaro, degenera con Liam che quasi pela la faccia di Noel brandendo e spaccandogli addosso l’adorata Gibson ES-355 rosso ciliegia del 1960, prima di venire brutalmente schienato sul pavimento dal fratellone, con i successivi saluti di Noel al mondo attonito.
Dal 1994 al 2009, quindici anni da rinnegati: Noel con i suoi psichedelici High Flying Birds e Liam con il revival...
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nostalgico dei Beady Eye. Poi l’annuncio clamoroso, alla fine dello scorso agosto 2024: tornano gli Oasis, la band più celebre e divisiva che la Gran Bretagna abbia avuto dai tempi dei Sex Pistols. Sarà stata la nostalgia dei bei tempi andati o il vedere tutti quegli zeri in fila sull’assegno sventolato sotto il loro naso, o forse entrambe le cose, sta di fatto che i fratelli Gallagher si sono ripresi titoli e copertine decidendo di sotterrare l’ascia di guerra e tornare in pista. Del resto, era inevitabile. Troppo siccitosa la penuria di nuove rockstar nel terzo millennio, troppo clamoroso il botto fatto allora dalla band di Manchester per considerarli defunti per sempre.
Non è ancora dato sapere se sarà soltanto un tour o se ci sarà addirittura un album e nemmeno si conosce la lineup che, al momento, ufficializza soltanto la presenza di Paul “Bonehead” Arthurs (con gli Oasis sin dagli esordi del 1991): tuttavia, l’annuncio ha creato un’eccitazione tale da polverizzare all’istante la prevendita dei biglietti delle 15 date in cartellone (ma che verosimilmente aumenteranno) riportando improvvisamente le lancette del tempo indietro di un trentennio, quando fra il 1994 e il 1996, i cinque teppisti sbucati fuori dalla periferia di Manchester erano semplicemente la band Numero Uno al mondo, miscela isterica di rock, moda e gossip, sempre squadrando strafottenti tutti dall’alto delle classifiche mondiali.
BRITPOP
Sono anni ruggenti ma anche drammatici per il rock duro (e per i discografici) alla disperata ricerca di nuovi idoli e mode che aggancino orde di giovani in cerca della prossima ribellione. I Guns N Roses si sono autodistrutti nell’oblio dell’eroina e nei deliri megalomani di Axl Rose ma, soprattutto, Kurt Cobain si è tolto la vita nell’aprile del 1994, mettendo fine all’epopea del grunge di Seattle. Gli Oasis riescono a riempire quel vuoto gigantesco, creando un suono e un’immagine che diventano autentica mania, pompati da una stampa letteralmente impazzita per la loro arroganza da rockstar imbevuta d’ignoranza proletaria, luccicante di estetica pop ed eccessi pericolosi, che ha spazzato via l’aria dimessa da loser tipica di grunge e indie rock (Creep dei Radiohead docet), dando la stura e il suggello a quell’eterogeneo calderone musicale chiamato Britpop.
Con il Britpop l’Inghilterra torna l’ombelico del rock grazie all’esuberanza di ritornelli giganteschi e chitarre scazzate, sciorinate con sfrontato e stiloso orgoglio britannico. Una vera e propria nuova British Invasion che travalica prima i confini d’Albione (conquistando anche gli USA, come negli anni ‘60) e poi l’ambito musicale diventando anche moda sartoriale, con i suoi caschetti anni ‘60, i giacconi extralarge e le camicie button-down diventati dei must; una invasione trainata furbescamente anche dalla cosiddetta Battle Of Band, l’acerrima rivalità fra gli Oasis e i loro più diretti antagonisti, i Blur, che monopolizza il palcoscenico mediatico rinverdendo i fasti della disputa Beatles/Stones.
Un’antipatia feroce fra band quantomai differenti: londinesi della classe media colti ed eccentrici in continua evoluzione musicale i Blur; mancuniani delle periferie, fieri delle loro radici irlandesi e mai allontanatisi dallo spirito e dagli eccessi del rock n roll gli Oasis.
All’attivismo e all’intellettualismo dei Blur, gli Oasis rispondono cantando l’immaginario limitato e rozzo del proletario teppista che a fine turno beve al pub e la domenica fa l’hooligan sognando di svoltare un giorno.
A rendere più acre e avvincente l’antagonismo è l’evidenza che Oasis e Blur sono espressione di due Inghilterre lontane che all’inizio dei ‘90 si scontrano ferocemente: la rude working class del profondo nord orgogliosamente celtico, stritolata dalla deindustrializzazione degli anni ‘80, contro la benestante e snob borghesia del sud classicamente inglese, proiettata verso il nuovo millennio. Ad unirli, l’amore per la grande tradizione musicale britannica che si declina in un revival sfacciato dei ritornelli pop di Beatles e Rolling Stones, che rinnova le radici mods di Small Faces, Who e Kinks, con una spruzzata dei glitter glam di Bowie, Bolan e Slade, le pulsioni post-punk di Jam, Fall e New Order e il romanticismo raffinato degli Smiths.
Il tutto, sempre con il tipico british humour, risposta serafica della generazione X albionica alla contemporanea oscurità heavy e seventies del grunge di Seattle.
Il Britpop è poi la vera e propria colonna sonora di un più ampio sentire culturale che attraversa la gioventù dell’isola all’alba degli anni ‘90, la cosiddetta Cool Britannia, ovvero l’euforia per la fine del rigido conservatorismo della Thatcher e la voglia di riscossa che si fanno largo fra degrado giovanile e macerie sociali (fotografate dal contemporaneo libro-cult di Irvine Welsh, “Trainspotting”) ereditate dal decennio precedente.
Un sound che fotografa un momento di transizione e rinnovamento della società inglese e che pone le sue premesse nelle periferie emarginate di Manchester, città pesantemente industriale da sempre agitata da un underground musicale fervido, dove aleggia il fantasma tragico dei Joy Division e dove nasce l’antesignano più diretto del Britpop, il cosiddetto Madchester.
Dal palco dello storico locale Hacienda, fondato nel 1982 dal boss della Factory (la label dei Joy Division) Tony Wilson, giovani band fieramente mancuniane [di Manchester] come Stone Roses, Happy Mondays, Inspiral Carpets e 808 State (con l’aggiunta dei londinesi Charltans) diffondono un mix dinamico e colorato di indie rock, acid house, psichedelia e pop anni ‘60, il Madchester appunto, che si diffonderà nell’intera isola come baggy, assaltando le UK Charts e rivitalizzando l’imbalsamato rock inglese. Una vera e propria seconda Summer of Love, fatta di ectasy e cappelli da pesca, batterie funky e pantaloni col cavallo basso (baggy, appunto, nello slang) che attira nei club della città migliaia di ragazzi da ogni parte del Regno Unito, iniettando la solarità dell’house di Ibiza nel grigiore del post-punk di Manchester, la cultura rave in quella rock, integrando irrimediabilmente ritmi dance, ritornelli pop e chitarre saettanti: un mood che nel suo evaporare (come accadrà al sognante rumorismo del coevo shoegaze) si condenserà proprio nel guitar sound accattivante del Britpop.
L’anno zero è il 1991, con il debutto omonimo dei Suede che rivela alla critica le sofisticate trame chitarristiche pop di Bernard Sumner, mentre l’anno dopo, con il singolo Popscene , gli ecclettici Blur abbandonano i declinanti shoegaze e baggy del debutto Leisure per diventare l’altro archetipo del Britpop.
Da lì, le band spuntano come funghi ovunque ma tutte distanti fra loro: la teatralità glam dei Pulp e la sulfurea psichedelia dei Verve s’aggregano anche loro nelle classifiche britanniche, ma tutte saranno letteralmente travolte dall’impatto supersonico degli Oasis.
NOEL & LIAM GALLAGHER
Una storia dura quella degli Oasis, che nasce nel celtico e profondo Nord Ovest inglese, nella plumbea Manchester appunto, precisamente a Longsight, degradata periferia industriale attraversata da puntuali rivolte, spaccio e sparatorie fra gang (da qui il soprannome negli anni ‘70 di Gunchester), nella quale casermoni in mattoni rossi stipano gli immigrati irlandesi arrivati in massa negli anni ‘60 come manodopera a basso costo assorbita dal boom edilizio della città.
Anche i Gallagher sono figli di immigrati irlandesi cattolici, Thomas e Peggy, partiti per scampare alla carestia e trovar fortuna. Thomas è carpentiere e, come molti poveri cristi dei ghetti, alza le mani in casa e il gomito al pub. Dopo anni di inferno e il trasloco nella vicina e turbolenta Burnage poco dopo la nascita di Liam (nel 1972), Peggy nel 1984 scappa di casa con i tre figli, facendosi un mazzo così in una mensa scolastica e crescendo da sola Paul, Noel e Liam, cercando di tenerli lontani dai guai e dalla strada. Impossibile.
Noel e Liam, soprattutto, sono teste calde che si fan largo fra le risse, i piccoli furti, le espulsioni da scuola, il lavoro minorile, le scorribande anfetaminiche con i Main Line (gli hooligans dell’amato Manchester City), il football gaelico, i pub dove schiantarsi dopo essersi spaccati la schiena in qualche cantiere o capannone. Un percorso da perfetti lads figli della classe operaia, stritolata dalla deindustrializzazione crudele e dai tagli al welfare dell’Inghilterra thatcheriana degli anni ‘80 che a Manchester fa spegnere parecchie ciminiere e chiudere i suoi imponenti moli, aumentando l’emarginazione e l’abbandono scolastico di migliaia di ragazzini, avviati così all’alcol o alla galera.
Il percorso dei Gallagher, invece, a un certo punto devia verso l’Olimpo dello star system. Succede quando Paul “Bonehead” Arthurs, un altro irlandese di Longsight che ha mollato la scuola per fare l’imbianchino, fonda i The Rain, (in omaggio al lato B di Paperback Writer dei Beatles): Arthurs è alla chitarra, Paul “Guigsy” McGuigan al basso Tony McCarroll alla batteria e Chris Hutton al microfono. Un manipolo di debosciati irlandesi delle periferie sud di Manchester senza nessuna chance di andare da nessuna parte, se non nel pub lì vicino a fare baldoria.
“EHI, C’È DEL LAVORO PER UNA ROCKSTAR?”
Ad una di quelle notti gloriose Guigsy invita il suo compagno di scuola Liam Gallagher che, in realtà, a scuola lo ha visto poco, visto che già a quattordici anni Liam preferiva tirar su qualche sterlina come parcheggiatore e sniffare colla. In quel momento Liam ha diciannove anni, è disoccupato e si è anche iscritto al Job Center di Manchester: entra nel pub e chiede serio: “Ehi, c’è del lavoro per una rockstar?” E’ ovvio che vedendo quel casino voglia assolutamente esserne il frontman. Salito a bordo, suggerisce il cambio di nome della band in Oasis, da un poster del tour degli idoli Inspiral Carpets appeso da Noel nella loro camera da letto. Uno dei luoghi elencati sul poster è proprio l’Oasis Leisure Centre di Swindon, contea di Wiltshire.
UNA MARCIA IN PIU’
La svolta avviene quando Noel, appena tornato a casa da un tour mondiale come roadie proprio degli Inspiral Carpets (per i quali si era proposto come cantante, venendo però scartato), incuriosito va a vedere al Broadwalk l’esordio della band del fratellino. Fanno letteralmente schifo ma hanno fame. Così chiede di potersi unire come solista, col punto fermo di essere l’unico a scrivere i pezzi: “Con me diventerete delle star ma senza non andrete mai via da Manchester...”
Bonehead [Paul Arthurs] non fa una grinza, è lui l’artigiano che sta forgiando il sound fragoroso degli Oasis ma capisce al volo che Noel è di un’altra categoria: certo, da punkettaro quella passione di Noel per Marc Bolan non la capirà mai, ma lavorando con gli Inspirals per oltre due anni Gallagher ha osservato e imparato l’arte del palcoscenico, della registrazione e l’etica del lavoro da una band che per emergere ha lavorato sodo. Ma soprattutto, Noel ha quello che veramente manca a quel manico di scoppiati: le canzoni. E lui ne ha un casino, scritte in solitudine nel monolocale sgarrupato in cui vive e nel magazzino in cui lavora, con colleghi e vicini che lo pigliano per il culo, mentre medita la sua vendetta.
Infatti, come Liam, Noel non è un predestinato. Nessun talento precoce se non quello di ficcarsi nei guai. Nessuno ha mai scommesso un penny su quei due randagi. In un ghetto dove tutti i ragazzi sognano di andarsene diventando calciatori o rockstar, i Gallagher crescono più interessati alla prima opzione.
Noel poi è lo strambo della famiglia, solitario e balbuziente (come Paul, entrambi traumatizzati dalle tante botte prese da Thomas, il loro padre), chiuso nel suo mondo, più attirato dalle cattive compagnie che la strada e la curva del Manchester City offrono. Così, a quattordici anni, beccato dopo un furto e condannato a sei mesi di libertà vigilata, si ritrova una vecchia chitarra classica in soggiorno, disperato tentativo di Peggy di salvare dalla galera quel figlio turbolento. È del padre, probabilmente vinta a carte al pub irlandese dove passa delle ore e mai suonata da nessuno. Noel ora però ci prende gusto. È per destrimani, lui è mancino ma chi se ne fotte. Inizia a suonare le linee di basso dei Joy Division, poi impara la versione degli Animals di The House Of The Rising Sun .
Si attacca alla radio e si appassiona ai grandi della British Invasion, Beatles in testa ovviamente, ma anche Pink Floyd, Bacharach, T. Rex, Neil Young e il suo primo grande eroe, il leader dei Jam, Paul Weller. Ma è quando si imbatte alla radio in This Charming Man dei suoi concittadini (e irlandesi) Smiths che Noel comincia a mettere a fuoco l’obiettivo: “Voglio diventare Johnny Marr”. Punto. Anche perché molla la scuola e non ha piani B.
Manchester gli offre poi anche l’altro suo grande input musicale: John Squire, dinamitardo chitarrista degli eroi del Madchester Stone Roses.
Ad essere letteralmente illuminato dall’esibizione degli Stone Roses quella fatidica sera all’International 2, nel 1988, è anche Liam, che solo due anni prima aveva scoperto l’ossessione per Lennon e i Sex Pistols dopo essersi risvegliato in ospedale per una martellata rifilatagli in testa da un bullo. Meglio il palco che la strada, dunque.
I due fratelli, così simili, così distanti, uniscono ora le forze per scappare da Burnage. Il resto viene così facile, così veloce, da far impressione.
Dall’imbarazzante debutto al Broadwalk davanti ad una decina di amici e l’oceano adulante di Knewborth, dove sfoggia la sua chitarra più riconoscibile (una Epiphone na Nashville Series Sheraton "Union Jack", modificata con cordiera Frequensator e mini-humbucker) passano meno di cinque anni.
Soprannominato The Chief [il capo] Noel usa la frusta nelle prove. Pochissimi i concerti, meglio lavorare duro sulle canzoni. Mentre Suede e Blur hanno già esordito, gli Oasis sgobbano da bravi irlandesi nei garage di Manchester, sei sere su sette.
OASIS, DEFINITELY MAYBE
Nel maggio del 1993, la band viene a sapere che un dirigente discografico della Creation Records sarebbe andato alla ricerca di talenti al King Tut's Wah Wah Hut di Glasgow.
A fatica, i cinque radunano i soldi per noleggiare un furgone e si sciroppano sei ore di viaggio. Alla fine del loro set di quattro canzoni il fondatore della Creation Alan McGee li mette sotto contratto per sei album, dichiarando: “Ho trovato la più grande rock 'n' roll band dai tempi dei Beatles!” E non sarà l’unico a pensarlo. Quando Definitely Maybe esce finalmente nell'agosto del 1994 (e solo grazie al terzo produttore Owen Morris che sbroglia il bandolo della matassa azzeccando la terza registrazione!), gli Oasis non sono proprio lo sparo nel buio: hanno visto i loro primi due singoli subito in classifica, già da quattro mesi; Supersonic ha raggiunto la posizione numero 31, il successivo Shakermaker addirittura la posizione Numero 11. È l’album che farà andare giù di testa Lars Ulrich, Dave Grohl, Pete Townshend, Neil Young.
Nel dicembre del 1993, quando gli Oasis registrano il loro primo singolo, Supersonic , allo studio di registrazione del Pink Museum di Liverpool, tutto ciò che Noel tira fuori è una Epiphone Les Paul Standard color ciliegia, un combo WEM/Watkins Dominator MKIII usato dei primi anni ‘70 e una unità Roland RE-201 Space Echo. Successivamente, per le parti acustiche userà anche una Epiphone EJ-200 su cui monta corde Ernie Ball Regular Slinky 010-046.
La sua scelta per le Epiphone, analogamente a Bonehead [Paul Arthurs] deriva dall’amore per i Beatles, ragazzi simbolo delle chitarre hollow-body marchiate Epiphone. Ma mentre loro erano grandi appassionati del modello Casino, gli spiantati Noel e Bonehead finiscono per comprarsi una più economica Riviera degli anni ‘80 prodotta in Giappone.
La Riviera è molto diversa dalla Casino dei Beatles (dotata di P-90), in quanto armata di due humbucker a grandezza naturale e di un ponte Tune-o-Matic che la rende molto più simile a una croccante Gibson ES-335.
Per l’album Noel avrebbe davvero bisogno di una vera Les Paul, ma dato che al momento è disoccupato non può certo permettersene una. È la sua musa ispiratrice, Johnny Marr, diventato suo amico, a prestargli la sua bellissima Gibson Les Paul Standard del 1960 precedentemente appartenuta a Pete Townshend, il quale ne aveva sostituito il manico!
Noel la usa in Slide Away e Live Forever prima di spaccarne, pochi mesi dopo, il manico sul grugno di un fan che a Newcastle lo aveva assalito on stage (con quel santo di Marr che gli ha presterà un’altra sua chitarra, una Les Paul Custom nera, oltre che il suo studio di registrazione). Alla fine, Definitely Maybe avrà il suo muro di chitarre della Madonna.
L’incipit, Rock 'n' Roll Star , è il ringhio arrogante di chi sta arrivando dalle periferie per prendersi il successo senza chiedere scusa. I Beatles suonati dai Sex Pistols, con la spavalderia dei T-Rex e riff in abbondanza. Per Bonehead è la dichiarazione di tutto ciò che gli Oasis sono.
La lunatica Shakermaker è un’irresistibile presa per il culo che inaugura l’abitudine di Noel di prendere in prestito dal passato: la melodia della strofa la prende da I'd Like To Teach The World To Sing (In Perfect Harmony ) una canzone resa famosa poiché utilizzata dai jingle della Coca-Cola negli anni ’70. L’inevitabile citazione in giudizio dai proprietari del copyright per l’uso senza licenza sarà salutata così da Noel: “Ora beviamo tutti Pepsi!” Applausi.
Impunemente, anche il quarto singolo della band, il programmatico Cigarettes & Alcohol , diventa il secondo caso in cui gli Oasis sono accusati di plagio. Il riff principale è presumibilmente ‘preso a prestito’ da Get It On dei T-Rex e Little Queenie di Chuck Berry, e somiglia mooooooolto all'apertura della cover di C'mon Everybody degli Humble Pie. Tutto vero; Noel è una gazza che, come Page e Blackmore, arraffa e riassembla dallo scrigno del rock le gemme che più gli occorrono: Slide Away si dilata epico come Cortez The Killer di Neil Young, ma va benissimo così.
Live Forever è la ballata, che sfonderà definitivamente negli States: Noel la scrive nel 1991, quando azzoppato in casa per un incidente in cantiere, strimpella una melodia ispirata a Shine A Light dei Rolling Stones. Diventerà un inno generazionale, schietto e positivo, che fa sciogliere in lacrime il duro Bonehead la prima volta che Noel glielo farà sentire imbracciando la E-J 200, perché consapevole che quel pezzo non potrà non avere successo.
In tutto questo ben di Dio di power pop, il fragore osceno di Bring It On Down vanta ancora la palma di pezzo preferito da Noel.
È così che Definitely Maybe [1994] fila direttamente al numero 1 della UK Album Charts al momento della pubblicazione (100mila copie vendute nei primi quattro giorni!), diventando l'album di debutto più venduto fino a quel momento nel Regno Unito, con oltre otto milioni di copie vendute nel mondo, di cui ben un milione negli USA. [Il clamoroso successo di Definitely Maybe è così radicato in patria che la sua recentissima ristampa (2024), in occasione del 30esimo anniversario, balza all’istante al Numero Uno... grazie anche all’irriverente immagine da bad boys dei Gallagher]
Liam inchioda lo standard vocale per essere rockstar del decennio successivo, biascicando come Ian Brown degli Stone Roses e fissando il pubblico immobile da dietro i suoi occhialini colorati alla Lennon; stretto nel suo parka e provocatorio con quelle mani dietro la schiena come un monello, irradiando una freschezza post-adolescenziale. Noel ha la testa bassa, cupo nei suoi Aviator, concentrato a tagliare l'aria con quei riff spigolosi come i marciapiedi di Burnage, i delay stordenti e i feedback uncinanti... peccato che quei due brutti ceffi non ci fanno mica, ci sono proprio. Peccato davvero, perché quando s’incastrano, qualcosa di grande succede... Ogni serata del tour non si saprà mai se sarà un disastro o un trionfo, se tireranno una testata a qualcuno o se la prenderanno, se verranno arrestati e rilasciati in tempo per salire di nuovo sul palco, se ad uno dei due fratelli gli girerà il culo non presentandosi o se sarà il loro ultimo concerto. Può essere un tour negli Stati Uniti o una esibizione al MTV Unplugged: ai Gallagher non gliene frega di niente e di nessuno. Per la gioia dei media.
Costantemente sul filo del rasoio, le tensioni diventano sempre più incontrollabili man mano che la band diventa sempre più gigantesca, capace di soffiare via chiunque in termini di popolarità (solo i Blur reggeranno per un po' il ritmo degli odiati rivali) ma diventando sempre più stretta per contenere entrambi i fratelli Gallagher. Alla Creation diventano matti per salvare la loro gallina dalle uova d’oro: una fatica immane ma ripagata dalle vendite stratosferiche del successivo (What’s The Story) Morning Glory? (1995) l’apice della band e del Britpop (350mila copie vendute nella sola prima settimana, 22 milioni complessivi nel mondo), diventati ufficialmente il miglior album d’esportazione del Paese.
NOEL GUITARS
(What’s The Story) Morning Glory? è la consacrazione di Noel come songwriter, passato in tre anni da dislessico autodidatta che non sa leggere la musica ad autore di successo mondiale (e da 18 milioni di sterline di diritti d’autore nel solo 1996!), osannato persino da Neil Young. Che è stata poi la sua ossessione: essere ricordato come cantautore e non come musicista. L’odiato rivale Graham Coxon dei Blur sarà sicuramente più tecnico e versatile ma “chi si ricorda un suo pezzo?”
Più ritmico che solista, Noel Gallagher è l’uomo della melodia perfetta. La sua pazzesca dimostrazione di quante canzoni di successo si possano scrivere con gli stessi accordi aperti standard spinge un’intera generazione di ragazzi a prendere in mano una chitarra...
Osannato e vituperato in ugual misura, Noel Gallagher in realtà fa tante piccole cose ma con grande semplicità ed espressività: gli accordi jangly sui barré, gli arpeggi su un riff di tre accordi, un tipico assolo a fondo manico mentre suona la prima progressione di accordi per poi cambiare saltando in cima al successivo e iniziare a suonare le note alte… Anche quelle sue armonie cromatiche in The Masterplan meritano più attenzione; discorso che vale ancora di più per il solido Bonehead. Infatti, se il sound degli esordi degli Oasis è come prendere una noce sul naso da una bella canzone, il merito è soprattutto dell’impatto del suo muro di accordi in barré.
(What’s The Story) Morning Glory? esce il 2 ottobre 1995 dopo un’attesa spasmodica, lievitata dalla rivalità sempre più rovente con i Blur (che li vedrà far uscire a mo’ di gara, i singoli apripista dei loro nuovi album lo stesso giorno!) e dal successo del singolone Whatever uscito nel dicembre del ‘94, trailer della nuova direzione musicale che addirittura non sarà inserito nell’album... capita quando hai una tracklist che è una sfilata di potenziali Numero Uno.
(What’s The Story) Morning Glory? è meno supersonico e più elettro-acustico del debutto (e con l’ingresso di Alan White alle pelli ad assecondare la crescita del songwriting di Noel), con meno tafferugli punk e più solarità pop, beatlesiano nelle orchestrazioni e nell’uso del pianoforte e del mellotron (suonati da Bonehead), poderoso nei suoi bridge perfettamente radiofonici: come Some Might Say , che inaugura un decennio di singoli piazzati direttamente al Numero Uno (e vede Noel imbracciare una Gibson Firebird del ‘67), mentre gli imponenti archi di Wonderwall lo incoronano come il pezzo più celebre scritto da Noel e quelli di Don’t Look Back In Anger (primo singolo cantato interamente da Noel) lo eleggono colonna sonora dell’estate del 1996 e vero tormentone nazionale. [A tal punto che, quando Manchester sarà sfregiata dall’attentato dell’ISIS alla Manchester Arena nel maggio del 2017 durante il concerto di Ariana Grande, la fiumana umana radunatasi lì tre giorni dopo per ricordare le 22 vittime, la metà sotto i sedici anni, inizierà spontaneamente a cantarlo in coro commossa. Da pelle d’oca.]
All’interno di un disco che sembra già un colossale greatest hits, Champagne Supernova si prende il titolo di miglior pezzo mai scritto da Noel, probabilmente per la sua disarmante semplicità alla All Young Dudes dei Mott The Hoople, imperdibile anche per la Gibson SG del 1968 Cherry Red dell’ospite extra lusso Paul Weller che ne deflagra la malinconica psichedelia.
Pur perdendo l’assalto rombante dell’esordio, il Tone della chitarra di Noel rimane comunque sempre denso, distintivo e immediato, frutto di una semplice combinazione di overdrive, delay e riverbero. Il suo caratteristico suono overdrive è ottenuto con un pedale OCD Fulltone, mentre è il pedale Boss DD-3 il responsabile dei delay. Per il riverbero utilizza un Fender '63 Reverb con la poderosa Marshall JCM900 4100 Head che fa la sua minacciosa comparsa.
Avendo ora un budget da sceicco, nelle session Noel arricchisce la sua faretra di chitarre introducendo le Gibson J-150 e J-200, una Epiphone FT-110 Frontier, una Takamine EF325SRC rossa (usata spesso nei live per Wonderwall) e un’altra EF-400S a dodici corde.
Con (What’s The Story) Morning Glory? Noel Gallagher si prende definitivamente la rivincita ma paradossalmente è l’inizio del declino. Pur segnando il fantascientifico record di 360 mila copie vendute in un solo giorno, il successivo Be Here Now del 1997 delude tutti, ma vedrà l’esordio dell’adorata Gibson ES-355, che diventerà la sua chitarra principale prima di venire sfasciata da Liam.
Pur se gli Oasis continueranno negli anni a piazzare Numeri Uno in classifica, inevitabilmente la formula magica diventerà ripetitiva e la vena di Noel perderà l’urgenza schietta e fresca di quel pugno di canzoni degli esordi, perfette. Gli anni ‘90 infatti finiscono, le mode cambiano, arrivano le Spice Girls e i Coldplay e gli amici se ne vanno (Guigsy prima e Bonehead, il vero albero motore della band, dopo). Rimangono solo gli scazzi sempre più violenti e imprevedibili con Liam, probabile conto aperto di un’infanzia violenta con entrambi, che avveleneranno gli Oasis fino a sancirne la fine, con la rissa finale di Parigi. Prima dell’annuncio supersonico di tre mesi fa, coerente colpo di teatro di chi cantava Don’t Look Back In Anger .
Gli Oasis sono tornati.
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