JOHN MAYALL The Godfather of the Blues

di Eugenio Palermo
02 ottobre 2024
John Mayall, l’ultimo highlander, se n’è andato lo scorso 22 luglio 2024, dopo quasi 70 leggendari anni on the road, che gli possono rivendicare il trono ‘dell’inglese che ha promosso la causa del blues più di chiunque altro’. E questa è la storia di “Beano”, l’opera che ha dato inizio a tutto...

John Mayall ha dato per primo una casa alla Santa Trinità dei chitarristi – Eric Clapton, Peter Green e Mick Taylor – ospitandoli nei suoi Bluesbreakers che per milioni di appassionati di musica sono stati il portale per conoscere l’intera storia del blues, trapiantando l’eredità di Chicago a Londra a colpi di Les Paul e Marshall.

Per Eric Clapton, Mayall è stato “The Godfather of Blues”. Per questo parlare di John Mayall significa salire davvero sulla macchina del tempo e ripercorrere l’avvento del British Blues che ha incendiato la Swingin London degli anni ‘60 e iniziato l’epopea del rock, incoronando definitivamente la chitarra elettrica come suo strumento iconico; ribattezzato anche Blue Eyed Blues, ovvero il blues sfrenato dei bianchi, riformulato e amplificato dopo che quello dolente del Mississippi era sbarcato nei porti di Liverpool e di Manchester assieme ai marinai yankees durante, e dopo, gli...

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anni del secondo conflitto mondiale, con i vinili di Robert Johnson e John Lee Hooker, le Gibson e le Fender; ma, soprattutto, dopo il leggendario tour del 1958 di Muddy Waters, l’inventore della rock band comunemente intesa.

Muddy Waters è il figlio del rurale Mississippi, il quale, trasferitosi nella metropoli Chicago negli anni ‘40, folgora il fangoso e acustico blues del Delta per poi scagliarlo verso un’intera generazione di teenager inglesi, spingendoli a buttare nella spazzatura le assi da bucato e le dog box con le quali strimpellano lo skiffle e a volere invece fra le mani una sei corde che sprigioni watt sempre più fragorosi.
Fra questi John Lennon, Van Morrison, Keith Richards, Ritchie Blackmore. Ma soprattutto i fratelloni maggiori di questa generazione di eroi: Alexis Korner e, appunto, John Mayall.
Se Alexis Korner è, infatti, considerato il padre fondatore del blues britannico con i suoi Blues Incorporated dalle tinte jazz dei suoi fiati e della sua sezione ritmica (oltre che primo banco di prova per i futuri membri dei Rolling Stones, Ginger Baker, Rod Stewart e Jimmy Page), John Mayall è il patriarca che ha battezzato nel blues più ortodosso ed elettrico le chitarre dei giovanissimi Eric Clapton, Peter Green, Mick Taylor ai quali ha dato una chance nel suo collettivo, i Bluesbreakers, per poi lasciarli volare via verso le loro stratosferiche carriere, continuando a diffondere il blues fino ai giorni nostri lanciando altri straordinari musicisti.

L’IMPRINTING DI UN’ERA
Non un guitar hero, John Mayall, ma un polistrumentista effervescente (la sua febbrile armonica in Room To Move ha spinto milioni di ragazzini a suonarla) dalla voce di seta e dal fiuto eccezionale nel riconoscere i cavalli di razza, soprattutto con una chitarra a tracolla.

Nel corso degli anni la sua creatura, i Bluesbreakers, hanno lanciato Eric Clapton e Jack Bruce, poi volati via per fondare i Cream; Mick Fleetwood, John McVie e Peter Green, i futuri Fleetwood Mac; Mick Taylor, che ha suonato per cinque anni con i Rolling Stones; Harvey Mandel e Larry Taylor dei Canned Heat; Jon Mark e John Almond, che hanno poi formato la Mark-Almond Band; un sedicenne Andy Fraser, poi nei Free; artisti del calibro di Tony Reeves, Jon Hiseman, Dick Heckstall-Smith (tutti e tre poi nei Colosseum), Buddy Whittington, Coco Montoya, Jeremy Spencer, Walter Trout, Colin Allen, Aynsley Dunbar. Un sistematico turnover nella lineup, più tipico delle formazioni jazz con un bandleader fisso che dei gruppi rock.

Quella di John Mayall è stata una carriera mitologica, con 38 album studio e 34 live spalmati in 57 anni di attività (arresasi agli acciacchi dell’età solo nel 2020), portata avanti come Bluesbreakers o con il suo solo nome, con più di 100 formazioni diverse, 15 soltanto durante i dorati anni ‘60, talvolta durate dall'alba al tramonto.

Un inossidabile apostolo del blues – insignito nel 2005 del titolo di Officer Of The Order Of The British Empire – dal 1969 trapiantato in California (a Laurel Canyon), capace benché ultraottantenne di macinare ancora 200 concerti l’anno (passando regolarmente nel nostro Paese, al Pistoia Blues Festival, a riscuotere affetto e devozione) e di ottenere una nomination ai Grammy Award nel 2022 per l’album The Sun Is Shining Down , entrando giusto quest’anno nella Rock & Roll Hall Of Fame per l’incalcolabile influenza sulla musica del secondo dopoguerra.

L’importanza di Mayall è di essere stato un pioniere nell’esplorare le potenzialità del blues, trapiantando il sound di Chicago a Londra, togliendogli il dolore e lasciandogli la libertà, palestrandolo con il nerbo di una band a supporto di un guitar-hero come leader, dilatandolo con la psichedelia, intarsiandolo con il jazz, aumentando i volumi per imporsi nei fumosi e chiassosi locali di Soho e abbassandoli invece quando tutti erano alla ricerca dell’ampli più devastante, non mettendo i lucchetti alle porte girevoli della band e spronando i chitarristi accanto a lui a trovare liberamente il loro blues. Anche altrove.

BEANO
Bluesbreakers With Eric Clapton [conosciuto perlopiù come “Beano”] annuncia le tavole del blues nel 1966, ma Slowhand vola via subito ed ecco dentro l’anno dopo Peter Green che non fa in tempo a rivelare al mondo – in A Hard Road (1967) – il suo fraseggio visionario, lasciando le luci al diciottenne Mick Taylor nell'album Crusade (di nuovo del 1967).

Il 1968 è l’anno del sofisticato jazz rock di Bare Wires , con una potente sezione-fiati (capitanata da Dick Heckstall-Smith al sax tenore e soprano) e con la batteria di Jon Hiseman che imprimono il debito clangore tra i solchi del suono. Forse il miglior lavoro di Mayall e i suoi Bluesbreakers, seguito da una ulteriore storica pietra miliare che è lo scarno live The Turning Point, (top ten delle classifiche UK 1969 e suo disco più venduto in carriera) con Jon Mark all’acustica e Mayall con una Fender Telecaster essenziale e intimistica a intrecciare arazzi scheletrici: un archetipo travolgente degli unplugged degli anni ‘90. E così via per sei decenni, fino ai giorni nostri, cambiando i pistoleri ma mai i proiettili.
E quello d’argento è stato proprio “Beano”.

“Beano”, forse non il miglior lavoro ma sicuramente quello più suggestivo, che ha cambiato per sempre il panorama della musica popolare; da lì in poi il blues rock guidato da una chitarra torreggiante avrebbe dominato la scena musicale per decenni.

Pubblicato ufficialmente con il titolo Blues Breakers With Eric Clapton , approfittando della relativa fama del giovane Clapton, l’album passa alla storia come “Beano” per il nome del fumetto che lo stesso Clapton tiene fra le mani nell’immagine di copertina.

Qui Mayall trova la formula magica per distillare il blues e trasformarlo in qualcosa di dirompente, mentre l’impronta potente di Clapton sull'album finisce per ispirare un’intera generazione di chitarristi blues, definendo il Tone e l’espressione che un grande chitarrista deve raggiungere. Ma riavvolgiamo il nastro...

IMPOSTANDO LA ROTTA
John Mayall nasce il 29 novembre del 1933 a Macclesfield, periferia suburbana di Manchester, nel Cheshire. Suo padre Murray è un patito di jazz e blues, con Robert Johnson e Blind Lemon Jefferson nel cuore, e si diletta con la tromba e la chitarra.

Mentre l’ombra della guerra s’allunga sull’Inghilterra, John cresce strimpellando da autodidatta tutto quello che passa per casa: l'ukulele, il banjo e poi la chitarra, l’armonica e il pianoforte, ispirato dai vinili di Django Reinhardt, Eddie Lang, Lonnie Johnson, Charlie Christian, Lead Belly, Pinetop Smith o di pianisti di boogie woogie come Albert Ammons, Cripple Clarence Lofton, Pete Johnson e Jimmy Yancey. La sua prima vera chitarra sarà una Weldone, hollowbody semi-elettrica a buon mercato acquistata in Giappone nel 1954, mentre è in licenza dal fronte in Corea, dove è stato spedito.


Tornato a Manchester, John si divide fra la gavetta di notte, nel circuito dei locali della contea, e gli studi di giorno, al Manchester College of Art. Ma quando li conclude, si gioca tutte le fiches trasferendosi a Londra, nel gennaio del 1963, spronato proprio dal guru Alexis Korner, più scafato e già inserito nel music business, in società con l’altro pioniere del british blues, Cyril Davies.

Iniziano così le scorribande londinesi al Marquee di Soho, al Ram Jam di Brixton, al Klooks Kleek di Hampstead, di quello spilungone biondo coi capelli lunghi e dall’armonica che tramortisce, a capo del suo neonato manipolo di ossi duri, i Bluesbreakers, autentica nave-scuola dove s’impara la musica del diavolo, adattamento ad alto voltaggio in terra d’Albione dello stile urbano di Chicago e delle sue dodici battute.
I primi bucanieri a salire a bordo sono il batterista Peter Ward (presto sostituito da Martin Hart, seguito da Hughie Flint), il bassista John McVie e il chitarrista Bernie Watson (rimpiazzato poco dopo da Roger Dean).

La prima ondata di blues britannico è appena finita; il repertorio di Alexis Korner, infatti, include facilmente Charles Mingus come Muddy Waters, mentre Cyril Davies (il vero sbandieratore del blues di Chicago) è tragicamente morto nel gennaio 1964. Tutte le altre band ispirate al blues, tra cui i Rolling Stones, gli Yardbirds e i Pretty Things, sfidano le classifiche dei singoli suonando un mix di pop e R&B ispirato a Bo Diddley e Chuck Berry.

Spazio per emergere per i Bluesbreakers dunque ci sarebbe, pur se sgomitando nel luogo dove si concentra il più alto tasso di talento musicale del globo.
Ma gli esordi sono disastrosi. Due singoli scritti da Mayall per la Decca, Crawling Up A Hill (maggio 1964) e Crocodile Walk (aprile 1965) non scalfiscono le classifiche, così come l’album dal vivo del 1964, John Mayall Plays John Mayall ; la Decca molla Mayall, lui non molla per niente ma capisce che se vuol sfondare come blues band guidata dalla chitarra ha bisogno di un drago di solista dall’attacco duro, snello ed elettrificato come i Mammasantissima-del-blues americano Freddie e Albert King...

IL DESTINO SI METTE IN MOTO
Il 28 marzo 1965, durante un tour di supporto a T-Bone Walker, i Blues Breakers arrivano a Nottingham, con un John Mayall che riunisce la sezione ritmica (John McVie/Hughie Flint) intorno a un jukebox e lo fa partire. Inizia con Got To Hurry , il lato B di For Your Love degli Yardbirds e alla fine del pezzo, John la butta lì: 'questo è Eric Clapton e ha appena lasciato gli Yardbirds. Dovremmo chiedergli di unirsi?’ I due raccolgono la mascella e annuiscono.

Clapton è appena uscito dagli Yardbirds, disgustato dalla svolta commerciale che li ha portati nella Top 10 con l’album For Your Love (1965). Ha solo diciannovenne ma con gli Yardbirds si è già costruito un suo piccolo manipolo di fan, ed è in totale confusione.
Il rigetto per il successo commerciale gli sta facendo considerare l’idea di trasferirsi a Chicago, la Mecca della musica, ed invece si ritira nella campagna dello Oxfordshire ed è così che Mayall ne deve fare di telefonate per convincerlo... Ma il loro è un incontro inevitabile. Mayall ha la saggezza rude dei trent’anni e il carisma magnetico di chi è già on the road da un decennio, mentre Eric è un giovane purosangue inquieto, alla ricerca di una sola cosa: il blues. Con Mayall e il suo pool di giganti debuttanti ne trova a palate.

BLUES BREAKERS & ERIC CLAPTON

Un giorno di marzo del 1965 Eric salta su un furgone, direzione Londra. Senza prove, Clapton suona il primo concerto all’inizio di aprile e subito Mayall capisce che quel ragazzino è avanti a tutti. Devoto a Freddie King, Buddy Guy e B.B. King, con le radici saldate nel sudaticcio R&B dei club alla moda di West London, Clapton non può che unirsi al primo gruppo di blues puro del Regno Unito, i Bluesbreakers.

Si trasferisce a casa di John e Pamela Mayall e i loro quattro figli nella zona Est di Londra. Si chiude in una minuscola stanza in cima alla casa e passa la maggior parte del tempo a divorare l’immensa collezione di dischi di Mayall e a esercitarsi all'infinito con la chitarra.
Eric era stato fulminato dalla copertina di Let's Dance Away And Hide Away (1962), sulla quale Freddie King stringeva una Gibson Les Paul. Un uomo e la sua chitarra, soli contro il mondo.

La prima chitarra elettrica di Clapton era stata la copia di una Gibson ES-335, la semiacustica hollow-body che suonava con gli Yardbirds presa a prestito dal suo compagno di band Chris Dreja, ma la sua ascia principale negli anni con la band era stata una Fender Telecaster rossa collegata a un amplificatore Vox che, in realtà, produceva un suono terribile.
Per suonare con i Bluesbreakers, Clapton individua una magnifica Gibson 1960 Les Paul col top in acero fiammato e i potenti P.A.F a bordo: la chitarra è in vendita nel negozio di musica di Lew Davis, in Charing Cross Road (nel West End di Londra) e la acquista per circa 120 sterline; una cifra relativamente economica visto che le pesanti Les Paul (LP) erano cadute in disgrazia di fronte alla sfida della ES-335 e delle varie Fender, Rickenbacker, Gretsch e Guild messe in circolazione. Sarà proprio quella LP a guidare l’amplificatore nei regni inesplorati della distorsione e del sustain.

Già: ma quale amplificatore? Freddie King usa allora un corposo Fender Bassman, raro e costoso nel Regno Unito, mentre il Vox di Clapton è semplicemente floscio. La soluzione arriva da un piccolo negozio di riparazioni nella zona ovest di Londra – Jim Marshall è il titolare, Ken Bran il suo assistente – e le richieste dei musicisti di allora di amplificatori più potenti hanno portato Marshall e Bran alla costruzione di una versione britannica del Bassman.

Ora Clapton pare sistemato: ha l’attrezzatura giusta per il suo suono e per il suo stile; ha metabolizzato tutti i dischi che ha divorato e ha già fatto concerti in tutto il Regno Unito... suonando esattamente il tipo di musica che gli era stato negato negli Yardbirds.
E infatti i Blues Breakers partono in quarta; incidono cinque brani per il Saturday Club radiofonico della BBC, mentre a maggio registrano due singoli – I’m Your Witchdoctor (prodotto da Jimmy Page) e Telephone Blues – con la nuova etichetta Immediate.

Tutto sta succedendo velocemente, quando, in uno dei suoi proverbiali sbalzi d’umore, Clapton molla la nave nel momento in cui è pronta per salpare e se ne va in Grecia con lo strampalato progetto Glands. Mayall sa bene di essere il direttore di un circo, alza le spalle e dà le chiavi della band ad un pivellino sfrontato di nome Peter Green.
Due mesi burrascosi dopo, Clapton rientra in patria. A ppena sbarca a Dover si fa prestare un nichelino, si attacca alla prima cabina telefonica e, come se nulla fosse, chiama Mayall che lo ri-accoglie, pur sapendo che sarebbe stato per poco . Ma che sarebbe stato grandioso...

Mike Vernon [produttore] non appena apprende del nuovo acquisto di Mayall, allerta la Decca convincendoli a riprenderselo a bordo. Poi, giusto per scaldare l’atmosfera, propone a Mayall e Clapton di registrare in duo qualcosa per la sua piccola mail-order-label, Purdah. Viene incisa così la strepitosa Lonely Years , le cui 99 copie stampate diventano 1000 in tre mesi, mentre l’intensa attività live nel West End londinese crea un boato intorno a Clapton. Alla fermata di Islinghton compaiono i primi graffiti “Clapton is God”. In un batter d’occhio riempiranno i muri di Londra. Mayall naturalmente molla la chitarra e si concentra su tastiere e armonica, proiettando ulteriormente i suoi Blues Breakers lungo le linee del blues di Chicago.

Raggiunto l’accordo con la Decca, si decide di dimenticare il mercato dei singoli e di optare per un album in studio. Mayall è determinato a catturare il live-sound dei Bluesbreakers, consapevole di quanto sia straordinaria la coppia McVie/Flint, piattaforma solida e oscillante con cui Clapton può solo volare alto. Le indicazioni di Clapton, inoltre, sono chiare: “voglio suonare come se stessi facendo un concerto, stando proprio accanto all’amplificatore...”

A maggio i quattro musicisti entrano nello Studio 2 della Decca a West Hampstead, ma ai tecnici appare subito chiaro che le registrazioni avranno un grosso problema: l’abbinamento Gibson Les Paul+Marshall Amp in overdrive di Clapton.
Infatti, Eric arriva con la sua Les Paul del 1960 (o forse del 1959) dotata dei P.A.F, la collega al Marshall 1962 (combo valvolare, 45 watt, 2x12”), accende tutto, prende a suonare e...il povero Gus Dudgeon (ingegnere del suono) quasi cade a terra per lo shock: “Oh cazzo! Come diavolo faremo a registrare quel cannone?!”

Nessuno ai Decca Studios ha mai sentito qualcuno suonare a quel volume; le persone iniziano a scendere dagli uffici per vedere che diavolo sia quel rombo d’aereo; è un ruggito mieloso e denso, scricchiolante e cremoso, che supera qualsiasi cosa provenga dagli Stati Uniti; il suono nel quale Clapton si è imbattuto cercando di emulare Freddie King.
Il guitar-tone di Clapton scuote gli studi della Decca sin dalle fondamenta, e poi il mondo della chitarra fino al midollo, per i decenni a venire.

Tutto l’armentario di Clapton è al massimo e sovraccarico, e Mike Vernon accetta la sfida lanciata da Mayall: Clapton avrebbe suonato esattamente come suonava sul palco!
Vernon chiede a Clapton di girare l’amplificatore verso il muro e di inclinarlo leggermente verso la sala di controllo; poi mettono dei ‘divisori’ semitrasparenti tutt’intorno e un microfono a circa due piedi dall’amplificatore stesso. Infine, una enorme coperta sopra l’amplificatore, il Dallas Rangemaster Treble Booster e il microfono, nel tentativo di mantenere il suono della Les Paul lì. Ma è così forte che entra comunque in tutte e quattro le tracce del nastro. Alla fine, perseverando ostinatamente, in quattro giorni il “Beano” è registrato.
[Nota – Ribattezzata “Beano”, la Les Paul di Clapton viene rubata nel 1966 e diviene una sorta di Santo Graal del rock, oltre che il talismano che ha salvato il modello stesso dall’estinzione]

Mayall naturalmente è il demiurgo, canta, si districa fra piano, Hammond e armonica, firma i meravigliosi inediti, ed astutamente sceglie le cover da inserire nell’album: quelle che meglio possano esaltare l’eroismo chitarristico di Clapton.
A differenza che nei dischi degli Yardbirds e dei suoni più aspri, il guitar playing di Clapton qui è nitido, torrido, chirurgico e feroce. E dannatamente forte. Ogni chitarrista che abbia mai suonato una Les Paul con una fluidità calda e pungente ha un debito enorme con questo album... Bluesbreakers With Eric Clapton, il famoso “Beano”, uscito il 22 luglio 1966.

È l'inizio della leggenda del blues rock britannico, di Mayall e di Clapton. È l’istituzione dell’irrinunciabile combinazione blues rock Gibson/Marshall. È la goduria di una masterclass dall'inizio alla fine: da All Your Love , il brano che apre l’album, è un continuo di esplosioni al neon, di rumore lancinante e note taglienti, pungenti, acute e aspre; una tempesta di rabbia e passione. Fra originali e standard blues, l’album è la parte più tagliente di Chicago e che guida ogni riff con la sensazionale sezione ritmica McVie/Flint saldamente unita e coesa.

I fuochi di artificio di Clapton abbagliano su Steppin' Out (l’unico a non avere l’assolo di Clapton registrato live), mentre Hideaway di Freddie King (il brano che bisognava saper suonare nota-per-nota per superare l’audizione in una blues band) è tutto note tagliate e shuffle blues. Ma nel caricatore ci sono anche una versione sudaticcia e rimbombante di What'd I Say di Ray Charles (e Clapton che all’improvviso spara il riff di Day Tripper che la squarcia di psichedelia!); l’armonica spericolata e piena di devozione di Mayall in Parchman Farm di Mose Allison e l’essenziale Ramblin' On My Mind di Robert Johnson, aggiornamento palestrato e tributo di gratitudine alla sua ispirazione musicale di tutta la vita (oltre che prima volta di Clapton come voce principale, l’unico brano che lui canta nell’album).

Ma è il monumentale Have You Heard di Mayall a far stropicciare occhi e orecchi, meraviglia addolcita dal falsetto della sua voce, dai suoni dell’Hammond e dalla maestosità della sezione fiati (Alan Skidmore al sax tenore, Johnny Almond al sax baritono e Dennis Healey alla tromba) e con l’assolo di chitarra di Clapton che è il male puro fra i momenti decisivi che hanno costruito il suo mito di Slowhand.
Bluesbreakers With Eric Clapton arriva al numero 6 nella classifica degli album del Regno Unito alla fine di luglio 1966 e rimane in classifica per 17 settimane. Uno shock enorme, un successo senza precedenti per un album blues britannico che contribuirà a spianare la strada ad altri trionfi, spingendo in superficie il blues dall’underground dove circolava da un decennio, dimostrando che vende.

Ma soprattutto, “Beano” è il filone-madre della chitarra blues rock, l’apripista per lo schianto dei Led Zeppelin, e senza la sua influenza, una legione di chitarristi (tra cui Peter Green, Gary Moore, Jeff Beck, Eddie Van Halen, Billy Gibbons, Joe Bonamassa, John Mayer, Stevie Ray Vaughan e persino Jimi Hendrix) avrebbe potuto suonare in modo molto diverso.

L’incantesimo di “Beano” sarà intenso ma di breve durata. Quando Clapton vede il trio di Buddy Guy suonare sul palco sente che nei Bluesbreakers è soffocato e se ne va per formare un combustibile nuovo, i Cream, con Ginger Baker e Jack Bruce (entrambi precedentemente assoldati da Mayall), e il mondo trasalisce ascoltando il chitarrista che ha lucidato la sua reputazione con il Chicago blues amplificato di Mayall lanciarsi nei regni della psichedelia e del jazz.
La coppia Mayall-Clapton registrerà insieme solo un’altra volta, in Back To The Roots del 1971.

Proprio come l'uscita di scena di Clapton dagli Yardbirds aveva spianato la strada a Jeff Beck e Jimi Page, la sua partenza per i Cream apre subito le porte della giostra di Mayall ad altri due eccezionali adepti al culto Les Paul: Peter Green (e la sua “Greenie” erede della “Beano” di Clapton) prima, e Mick Taylor, poi.

LINFA NUOVA
Bisogna farsene una ragione, non c’è mai stato alcun senso di stabilità nel collettivo Bluesbreakers. E questo è stato il suo segreto. La lineup post-“Beano” all'inizio del ‘67, ad esempio, composta da Mayall, Green, McVie e Mick Fleetwood alla batteria, durerà soli tre mesi e non farà mai un album in studio. Ma per i fan di Mayall, è addirittura quella più eccitante, capace di sconvolgere il circuito blues più emozionante di sempre (e lasciare testimonianza nei numerosi bootleg registrati), soprattutto per essersi goduta Green nel periodo di massimo splendore del suo celebre tocco da cadere in ginocchio! Quante lacrime di chitarristi ha fatto versare So Many Roads , e quante mascelle sono cadute con Double Trouble e San-Ho-Zay ?

La grandezza di John Mayall è stata proprio questa, andare oltre le lineup e oltre gli album, trovando sempre nuova linfa dai giovani musicisti che si lanciavano: “Ho sempre puntato alla qualità della musica e ho scelto musicisti con cui mi piace suonare e che mi piace ascoltare. Ho dato loro la libertà di esplorare quel che possono fare con la musica. Ero abituato alle persone che se ne andavano, erano molto più giovani di me e tutti stavano trovando la loro strada. I nuovi musicisti cambiano la dinamica di una lineup in modo positivo, restituendo sempre un nuovo slancio...” Così parlava The Godfather Of British Blues, John Mayall.

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