JOE PERRY Aerosmith

di Eugenio Palermo
31 dicembre 2024
Il rock’n roll è un lavoro sporco e ben pochi lo hanno reso ancora più sporco degli Aerosmith. Una baldoria fuorilegge lunga mezzo secolo e 150milioni di dischi venduti che ha cambiato il mazzo di carte sul tavolo e alzato la posta degli eccessi, esplorando tutte le strade del rock americano che partono da Chuck Berry e John Lee Hooker e arrivano ai Metallica e ai Guns ‘n’ Roses. Joe Perry ne è stato il pugno sotto la cintura, spavaldo e inventivo, in una vita sempre in corsia di sorpasso che è una carrellata infinita di riff, chitarre ed emotività.

La storia degli Aerosmith è la storia di come una garage band di outsider di Boston sia diventata la più grande hard rock band americana di sempre.
Nella linea evolutiva dell’hard rock, gli Aerosmith sono l’anello di congiunzione fra il classico R&B dei Rolling Stones degli anni ‘60 e la rifondazione metal-punk dei Guns N Roses degli anni ‘80, oltre che l’insolente vendetta yankee alla British Invasion; di certo privi dell’estetica degli Stones ma con tante palle nel cannone. E quelle palle al titanio hanno la forma dei riff muscolosi ed eccitanti di Joe Perry, incastrati spettacolarmente con il...

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sapiente artigianato del socio, Brad Whitford, tutto fuorché una semplice chitarra ritmica.
Se infatti gli Aerosmith sono icona macilenta e maledetta del rock degli anni ‘70, tenaci più del cuoio nel sopravvivere alle mode e persino a loro stessi, è perché sono ostinatamente rimasti loro stessi, sempre: ovvero una gigantesca, irrefrenabile e sfacciata macchina da riff.

RIFFIN’
Negli anni ‘70 di riff ne hanno cannoneggiati tonnellate, inneggianti alla triade sesso, droga e rock n roll, in una vita stravissuta fin quasi a lasciarci le penne; negli anni ‘80, risorti come una fenice da debiti, split e rehab, di riff ne hanno fucilati un’altra caterva trasformandoli in singoli tanto commerciali quanto irresistibili; mentre negli anni ‘90 e 2000 li hanno attenuati nelle loro power ballad da consacrazione planetaria. E di questa Santa Barbara del rock n roll Joe Perry è il piromane che l’ha fatta saltare per aria.

Per alcuni, poco fumo e poco arrosto dietro quel torace emaciato esibito per decenni e quella faccia da attore affilata e torva; per altri, fonte di venerazione perché capace di scrivere riff grandiosi e unirli ad un atteggiamento sfrontato e impenitente: Joe Perry è in realtà un chitarrista con un suono inconfondibile e uno stile originalissimo che da oltre mezzo secolo brucia come una torcia di passione per la seicorde, come prova peraltro la sua spettacolare collezione, fatta da più di 500 asce, talune uniche e introvabili. Il suo è un mix ad altissimo tasso testosteronico di blues, rock, boogie woogie e funky, spiattellato con l’attitudine da performer à-la Chuck Berry e a volumi heavy metal che ha lacerato l’aria come un bolide e picchiato inesorabilmente sotto la cintura di tanti adolescenti in piena tempesta ormonale.

JOE PERRY
La storia di Joe Perry è quella di un introverso e selvatico ragazzo italo-portoghese del Massachussets, nato a Lawrence il 10 settembre del 1950 e cresciuto ad Hopedale, amena cittadina di cinquemila anime nel cuore del New England americano più snob e provinciale, fra boschi incantati e laghi cristallini. Sono gli anni del mito del sogno americano: il benessere è a portata di mano, basta darsi da fare. I Perry ne sono i più tipici esempi. Figli di immigrati partiti dal basso (portoghesi i Pereira di parte paterna, diventati Perry una volta ottenuta la cittadinanza statunitense; napoletani invece gli Ursillo di parte materna) hanno sgobbato onestamente arrivando a laurearsi a Boston e conquistandosi (Tony come contabile, Mary come insegnante di educazione fisica) quella middle-class americana fatta di villetta, station wagon e perbenismo. Un’ascesa sociale che però al piccolo Joe non interessa.

Joe sogna di essere un giorno un biologo marino come Jean Jacques Costeau, il suo mito, e di esplorare le profondità degli oceani. Joe è un solitario, a suo agio solo quando si aggira per i boschi a cacciare col suo fucile ad aria compressa o si immerge nell’azzurro limpido del lago di Sunapee, nel New Hampshire, dove i Perry hanno costruito un cottage e la madre gli ha insegnato a nuotare e a fare le immersioni. Quello è il luogo dell’anima di Joe, lì i fallimenti scolastici non arrivano. Joe ama i suoi genitori, presenti e tolleranti, ma sa che sono degli inguaribili conformisti. E che lui non potrà mai renderli fieri.
È un bravo ragazzo occhialuto, ma il suo disturbo dell’attenzione mai diagnosticato gli renderà la scuola un’agonia, segandogli il sogno di studiare biologia marina e zavorrandolo del senso di colpa di aver deluso i suoi.

A casa Perry sono istruzione e sport le direttrici educative, l’arte è sconosciuta. Ma quando uno zio paterno strimpella il cavaquinho, una specie di ukulele tipico del folk lusitano, Joe rimane ammaliato dal suo suono arcano. Niente in confronto all’impatto stordente con i watt di una chitarra elettrica.
Un giorno, il muro che separa la porzione della villetta bifamiliare dei Perry da quella dei suoi vicini in affitto viene perforato dal baccano dei loro figli adolescenti. Quei capelli alla James Dean, quelle giacche di pelle, ma soprattutto quella chitarra elettrica che romba come un aereo sono una dichiarazione di ribellione. Billy Haley, Buddy Holly, Everly Brothers... Joe capirà che quella è la sua strada. È il 1958 del resto, il rock n roll irrompe nelle case degli americani con l’onda d’urto di una controcultura che li costerna. I Perry provano a deviare l’interesse di Joe sull’innocuo clarinetto che gli viene assegnato a scuola, ma Joe vuole l’adrenalina, qualcosa che ne assecondi il subbuglio ormonale che sente montare.
Joe vuole una chitarra. La chitarra elettrica è libertà, ribellione e poi gioca sporco, parla di sesso, parla di rivoluzione. Quanto basta per spaventare i Perry. Quanto basta per folgorare Joe.

La prima radio è il viatico ad Elvis, ma soprattutto a Chuck Berry: semplice, virile, pirotecnico, con del gran fegato. E di conseguenza la sua Gibson ES-335 diventa il sogno proibito di Joe. Le sue forme rotonde gli ricordano addirittura quelle della Loren, imprimendogli irrimediabilmente nella sua preadolescenza il legame fra rock e sesso, come il look da pistolero di Bo Diddley gli identifica il chitarrista fuorilegge.
I Perry lasciano fare, regalandogli per i suoi dieci anni una Silvertone acustica da 13 dollari. Ok, non è elettrica, ma da qualche parte bisogna pur partire. Quel giorno, Joe dalla frenesia inizia a strimpellarla subito, senza rendersi conto che le istruzioni sono per destrimani mentre in realtà lui è mancino! Quell’impostazione gli rimarrà così appiccicata per tutta la vita.

Nel 1964 lo shock di vedere in tv i Beatles gli spalanca davanti la British Invasion e a lui, lupo solitario, l’importanza di essere in una band. E di avere una Gibson. Ancora di più, la scoperta del Beano di John Mayall (1966) lo introduce al culto dei padrini dell’R&B, mentre Have A Rave Up degli Yardbirds (1965) è la freccia che farà scoccare la passione per Jeff Beck.
Ma a casa Perry le cose si devono sudare. E siccome la scuola stenta, Joe ne deve tagliare di prati e spalare di neve per racimolare quanto basta almeno per una Guild Startfire IV, il suo ferro nelle sue prime cover band fino al 1968, quando la vista del Jeff Beck Group a Boston lo farà innamorare perdutamente della sua Les Paul. Da lì la pallina di neve inizia a rotolare.

Joe si esercita di brutto suonando sopra Beatles, Byrds, Berry, Dylan. Man mano che la tecnica migliora il rendimento scolastico però peggiora; neanche mandarlo a studiare nell’esclusiva Vermont Accademy funziona, anzi. Fuori dal guscio della piccola Hopedale, Joe respira l’aria rivoluzionaria che tira nel mondo: i primi concerti, i primi sballi, i libri di Kerouac, il fraseggio di Peter Green in Rattlesnake Shake e, soprattutto, vedere il suo idolo Beck in Blow Up di Antonioni, concludere una versione cingolata di Train Kept A Rollin degli Yardbirds sfasciando la chitarra, la scena che gli imprime in testa il legame sovversivo fra moda e rock.
Il 1968 sta per ribaltare il tavolo dei matusa, Joe lo percepisce e lo vede in Hendrix, in Townshend, e alla fine, di fronte all’aut-aut di tagliarsi i capelli o lasciare la Vermont, mollerà quest’ultima ad un passo dall’agognato diploma, tornandosene ad Hopedale e arruolandosi per sempre nelle fila del rock.

SCOCCA UNA SCINTILLA
E’ nell’eremo incantato di Sunapee che Joe troverà con chi marciare insieme. Tom Hamilton è un bassista con il pallino di Chris Hillman dei Byrds e con lui fonderà la Jam Band. Ma, soprattutto, Joe farà l’incontro decisivo della sua vita: quello con Steven Tallarico.
Calabrese, figlio d’arte da parte paterna (nonno Giovanni e zio Pasquale sono musicisti emigrati a New York da Cotronei, nel crotonese, e suonano per gli States come Tallarico Brothers, mentre suo padre Victor insegna pianoforte e lo suona nella sua Vic Orchestra) e con ascendenze tedesche, polacche e afroamericane da parte materna, Steven è una testa matta di Yonkers.
Espulso da scuola, dove veniva bullizzato come labbra di negro, e da dove appena poteva scappava a Central Park o nei boschi di Sunapee ad arrampicarsi sugli alberi immaginando di essere una guardia forestale, Steven è nato rockstar.
In fissa con James Brown e Mick Jagger, Steven è un batterista portentoso con un’estensione vocale sensazionale e ha già avuto il battesimo discografico, pur senza svoltare. A Sunapee i Tallarico gestiscono un locale, il Trow-Rico e, proprio come Joe, d’estate Steven pianta le tende al lago con la sua band del momento. Un giorno, nel 1968, lui e i suoi vandali arrivano all’Anchorage, il ristorante dove Joe arrotonda facendo lo sguattero: Tallarico è sguaiato, logorroico, addobbato già come... Steven Tyler! Quel giorno finisce in una battaglia di cibo, con Joe che pulisce il pavimento e tira via la panna lanciata in quantità.
Sarà poi Steven, fulminato dopo aver visto Joe slegare con la sua band, a invitare lui e Tom per una jam, conclusasi con la registrazione di una robusta cover di I’m Down dei Beatles. È il primo embrione degli Aerosmith.

E AEROSMITH SIA...
Quando Joe ha messo da parte abbastanza soldi avvelenandosi i polmoni nella fabbrica di telai di Hopedale dove il padre è l’integerrimo contabile, decide di gettarsi nella mischia rock’n’roll di Boston insieme a Tom [Hamilton]. È il settembre del 1970. Contattano Steven che mette in chiaro di non volere cantare là in fondo dietro un drumkit: vuole il centro del palco. Inoltre, impone di tirarsi dentro il suo chitarrista, il bisonte in frange di cuoio Ray Tabano. Joe ci pensa su: beh, gli Yardbirds non lo avevano forse stordito allineando Beck e Page?
Per dichiarare guerra al mondo ci vuole allora un batterista spaccatutto: Joey Kramer, un toro di Yonkers dal background funk che studia al Berklee di Boston.
Manca solo un fottuto nome: Joey porta in dote quello di una sua vecchia band, Arrowsmith, che Joe rende più aerodinamico in Aerosmith. In cambio Kramer vincerà la sfiga di avere accanto per mezzo secolo un cantante (che nel frattempo muta il cognome in Tyler) che è un batterista dotato e maniacale che lo crocifiggerà per ogni inezia.

L’appartamento nel ghetto universitario, dove vivono tutti stipati, diventa presto crocevia di spacciatori e debosciati, sbirri e gangster. La band suona come vive e vive come suona, ai limiti dell’indigenza e della legge. Si fatica a pagare l’affitto e ad avere qualcosa in frigo, tutti racimolano qualche dollaro con lavori umili e, soprattutto, nei week end suonano ovunque e per chiunque paghi, mentre tutte le altre notti provano fino all’alba.

Gli Aerosmith hanno fame. Non c’è un piano B. Per questo, Tabano viene presto rimpiazzato da Brad Whitford, un altro osso duro che studia al Berklee Music College di Boston e che bazzica d’estate Sunapee, dove incontra la band in caccia di serate. Joe capisce al volo che Brad ne sa di più ma anche che non è interessato a contendergli i riflettori.
Gli Aerosmith suonano per due anni come se ne andasse della loro vita quando, finalmente, il boss della Columbia, Clive Davis, li ingaggia dopo il loro incendiario showcase al Max’s Kansas City di NYC. Gli Aerosmith danno inizio a una parabola destinata a marchiare a fuoco i territori del rock.

METTERE LE ALI
Steven è il più scafato della band e usa la frusta in sala. Il repertorio è fatto di suoi vecchi pezzi ed in più accompagna alla batteria Joe quando lui improvvisa con la sua Gibson Goldtop del ‘68. Movin Out sarà la prima creatura di queste jam. Aerosmith, l’omonimo debutto del gennaio del 1973 è però incerto, la band pare già al capolinea ma riesce ad avere una seconda chance l’anno dopo. Registrato ai mitici Plant Studios di New York con Bob Ezrin alla consolle (ma che delega tutto all’ingegnere del suono Jack Douglas), Get Your Wings (1974) è un disco con la D maiuscola. La Columbia però punta forte sul giovane Bruce Springsteen, considera gli Aerosmith una band usa-e-getta e, non fidandosi, chiama due mostri sacri come Dick Wagner e Steve Hunter a infarcire con la loro classe la torta preparata dagli Aerosmith. Il risultato è strepitoso, soprattutto nella ferocissima versione di Train Kept A Rollin. I due fenomeni non risulteranno neanche fra i crediti e a Brad e Joe non rimarrà che masticare amaro e prendere appunti (Joe su Dick, Brad su Steve). Dream On intanto esce come singolo con tanto di orchestra ed entra in classifica, il seguito si allarga ma sono ancora briciole.

Bisogna aspettare il successivo Toys In The Attic (1975) perché gli Aerosmith si prendano l’America, contendendosela d’ora in avanti con i Kiss.
Finita la scorta di pezzi vecchi, per la prima volta l’album va scritto da zero ed è così che la ditta Tyler-Perry, oliati gli ingranaggi, inizia a macinare: Joe cavalca la sensazione e improvvisa a ruota libera, Steven è perfezionista fino a spremere a sangue un’intuizione.
Joe ha investito i primi guadagni ampliando il suo parco giochi con una Stratocaster, l’agognatissima Les Paul del 1959 (la sua chitarra più amata), una Les Paul Junior del 1955 (presa da Johnny Thunders e con la quale inchioderà la tiratissima titletrack) e trovando finalmente un basso a sei corde, un Fender Bass VI, come quello del suo eroe Peter Green. Joe e Brad sgobbano per completarsi a vicenda e trovare il sound live più pieno. Ovvio. Gli Aerosmith sono una live band forsennata, hanno suonato ovunque nel New England e sono di casa anche in quel Midwest che tutti scansano. Per Joe è un comandamento: la band suona per i fan, perché sono loro la chiave per il successo.

WALK THIS WAY
I due cazzeggiano con pickup, ampli, pedali e soprattutto sanno ascoltarsi a vicenda; Brad ha tanto da insegnare all’autodidatta Joe che osserva, apprende molto e sperimenta ancora di più con le accordature aperte (la Telecaster in No More No More sarà tutta in Si e Mi!).
È così che nasce il riff mondiale di Walk This Way.
Vien fuori da sobrio, mentre Joe fa amicizia con la sua nuova Stratocaster, durante un soundcheck, provando a cavarne un ritmo che ricordi il funk figo dei Meters, band per la quale impazzisce. L’energia indemoniata degli Aerosmith e il groove dei Meters: per Kramer è un invito a nozze e prova ad assecondarne il tempo. Il riff così decolla. Il rap volgare di Tyler fa il resto, trasformando il brano nell’inno della band che svetterà di nuovo in classifica una decina d’anni dopo grazie alla rivisitazione dei Run DMC, spalancando le porte al rap metal dei ‘90.

Il riff incendiario di Walk This Way è il manifesto del sound di Joe. Basati sempre al Record Plant e con Jack Douglas al comando (colui che ha acceso i razzi alla band!), Perry lo ottiene collegando un Ampeg V-2 alla sua Les Paul Junior con un singolo pickup P-90, potenziando il range delle medie del V-2 per fornire ringhio e ululato. Usa la Les Paul per il primo assolo, ma per il secondo e l’outro Joe passa a una Stratocaster di fine anni ‘50; inoltre, nei grossi bending della stessa outro, utilizza un Super Fuzz degli anni ‘70 per addensare ulteriormente il range delle medie.

L’altro pezzo che sfonda le casse è Sweet Emotion, con la danza ipnotica del Jazz Bass Sunburst del ‘65 di Hamilton e il talk-box di Joe che apparecchiano la tavola a quel terremotante crunch della sua Stratocaster Left Handed capovolta, che leva la terra da sotto i piedi. Il music business è scioccato. La brutta copia dei Rolling Stones ha preso il jackpot. Lo zoccolo duro della loro fanbase bostoniana si allarga e diventa un esercito di scalmanati sparsi un po’ ovunque: ecco la Blue Army, un’orda di teppisti in jeans che spesso scatenerà autentiche guerriglie ai loro concerti, come nel ‘76 a Philadelphia, quando un petardo illegale sparato sul palco ustionerà la cornea di Steven e reciderà un’arteria della mano di Joe, in un pandemonio di sangue, fuoco e watt.

In quel momento il mondo è ai piedi degli Aerosmith, travolti da un successo che manda fuori giri il loro già folle stile di vita. Ormai rivelatisi gallina dalle uova d’oro, sono infilati dentro il tritacarne disco-tour-disco in cui non ci si può fermare: ZZ Top, Queen, Ramones, AC/DC... è l’età dell’oro del rock che vende cifre astronomiche e sforna ogni mese band assatanate, pronte a prendersi il posto.

Il carburante della band diventa sempre più pesante per restare in sella su una giostra che sa andare solo e sempre più forte. È in questo delirio di montagne di dollari e coca, dischi d’oro e stadi da ottantamila posti soldout, schianti in Ferrari sfangati e disastri aerei scampati (per caso gli Aerosmith non saliranno sull’aereo che precipiterà con a bordo i Lynyrd Skynyrd), collassi epici e suite divelte, che la band viene rispedita in studio nel febbraio del ‘76 per l’attesissimo seguito: è arrivata l’ora di Rocks.

ROCKS
Quarto capitolo firmato Aerosmith, Rocks (1976) è un disco volgare e fuorilegge come il loro stile di vita. Duro e inscalfibile proprio come i diamanti in copertina, proprio come Joe. Tutti brani nascono dalle torrenziali jam nella tana-Aerosmith, il Wherehouse di Waltham (Massachusetts), dove Douglas ha la geniale idea di piazzare lo studio mobile del Record Plant dentro, per catturare al volo le idee migliori. La band lavora nove ore al giorno, le take di ogni pezzo abbondano insieme alle sostanze, allora ancora intese come propellente creativo.

Gli Aerosmith salgono sul ring con l’accordatura ribassata di mezzo tono e tirano fuori un album strafatto di distorsione, con la fedina garage dei New York Dolls, i bicipiti degli Zeppelin, i viziacci degli Stones e il groove dei Meters. Rocks non ha la mazzata hard-funk indimenticabile come Toys... ma è un disco nero, psicotico, pericoloso, tossico, esaltato, rabbioso, quasi punk nella sua cruda urgenza. Joe è carico a pallettoni a tal punto che scrive interamente quel colpo di rasoio che sarà Combination, cantandolo addirittura in coppia con Steven. La ditta Tyler-Perry firma metà dell’album e Joe si ricorda di quel Fender a sei corde dal quale estorce, schienato dall’eroina, la tarantolata cavalcata dell’opening Back In The Saddle, durissima e depravata. Ma questa volta gli altri non stanno lì a girarsi i pollici: Hamilton firma con Tyler Sick As A Dog, scambiando il quattro corde con Joe (e poi con Steven che lo suona durante l’assolo di Perry); l’indizio di una band che ormai fa quello che cazzo vuole. Ma Rocks è anche l’album che rivela persino ai sassi Brad quale autentica arma segreta degli Aerosmith. Se già in Lord Of The Thighs (1974) Brad ha messo in chiaro le cose con assoli da veri intenditori e con Round And Round (1974) ha scritto il pezzo più pachidermico del catalogo della band, su Rocks esagera firmando due classici monumentali: il funky epidermico di Last Child (con Joe che gioca con una Tele Esquire Jeff Beck Tribute) e l’heavy metal tellurico di Nobody’s Fault, roba che manderà giù di testa il giovane James Hetfield dei futuri Metallica.
Uscito il 3 maggio 1976, Rocks si fregerà della neonata certificazione di disco di platino, e la band sbancherà in tour l’Europa e il Giappone. Un successo mondiale per un disco con chitarre per gli stomaci forti.

JOE, BRAD & GUITAR STYLE
Joe è la star, e non solo perché fa svenire le donne, ma è Brad il chitarrista più preciso, pulito e tecnico, in contrasto perfetto con il modo di suonare più sciatto, irregolare e ritmico di Joe. Insieme formano una formidabile bestia chitarristica.
Brad è solido e stakanovista, ha la mano heavy e i suoi assoli sono oscuri, un drago istruito tecnicamente ma che lascia la ribalta a Joe dando un senso musicale ai riffoni che gli schizzano fuori dalle dita. Joe è un purosangue che non vuole redini, ha la spavalderia, il funk, l’istinto di scrivere riff che spaccano la terra e muovono i culi. Dai ganci boogie (Joe è un maestro del riff boogie) agli accordi aperti ornati da hammer-on e pull-off (come si sente nel memorabile riff introduttivo a dieci corde droppate in D di Livin' On The Edge); dai brani in Mi standard alle accordature alternative, Joe è un versatilissimo chitarrista ritmico rock ma è un ritmico funk ancora migliore. Oltre ad aver digerito le vere leggende del blues e le loro reincarnazioni (Green, Beck, Page, Richards), Joe è influenzato da Catfish Collins, Ernie Isley, Eddie Hazel, Leo Nocentelli.

Anche Brad si è svezzato con Bluesbreakers e Yardbirds ma pure con Peter Frampton e Steve Marriott, tanto da entrare negli Aerosmith perché vuole far parte di una band con due chitarre come gli Humble Pie. Studiando al Berklee, il suo blues si è amalgamato con John McLaughlin, Wes Montgomery, Charlie Christian e anche con i chitarristi classici come Segovia, e tirannosauri come Billy Gibbons e Santana.
Joe non ha le doti dei suoi eroi ma è intuitivo ed espressivo, compensando i suoi limiti con personalità e originalità; utilizza principalmente le scale pentatoniche minori e maggiori ed è anche noto per l’impiego del misolidio, sia nel suo modo di suonare le ritmiche che negli assoli.
Uno dei marchi di fabbrica del fraseggio di Joe è l’utilizzo della sincope nei suoi lick. Come il suo idolo Beck, raramente fraseggia in downbeat; invece, suona intorno al ritmo come farebbe un suonatore di corno, e questo conferisce al fraseggio di Joe un suono decisamente caratteristico. Un’altra peculiarità di Joe è il far derivare gli assoli dai riff dei brani; i suoi assoli non fanno gridare al miracolo ma sono distintivi e ti si inchiodano in testa da quanto sono prepotenti e sexy. Anche il modo di suonare con lo slide è caratteristico e la lap steel in Rag Doll (una Chandler RH-2 Lap Steel) è semplicemente cool!

Ritmicamente simbiotici, Joe e Brad utilizzano accordi di 7a, 9a, 13a, Sus e doppi registri, insieme a tutte le altre normali inversioni rock e power chord. Nella maggior parte dei brani degli Aerosmith, Brad si mantiene sui registri bassi suonando power chord di quinta, mentre Joe delinea le tonalità degli accordi sui registri alti, oppure suonando pugnalate e leccate funky: di solito suonano parti complementari o armoniche separate e raddoppiano solo alcuni riff per portarli a casa. In generale, non distribuiscono tante armonie come la maggior parte delle band con due chitarre e quando lo fanno, di solito succede in un brano di Brad.

Come solista, Brad si affida principalmente alle scale pentatoniche minori e maggiori nei tradizionali pattern blues-box. Usa i classici lick e sequenze ripetute in stile Page, suonati a tempo con il brano. Si sente una grande influenza di Clapton nella sua attenzione verso la metrica. Mentre Perry tende a suonare sincopato e dietro il beat, Whitford tende a dividere il tempo in modo uniforme e a fraseggiare. Allo stesso modo, i suoi bending e il suo vibrato sono più intonati e precisi di quelli sfilacciati di Joe. Sia Joe che Brad sono segugi dell’attrezzatura e del Tone e Joe è noto per utilizzare fino a 14 chitarre sul palco.

In studio Joe utilizza praticamente ogni tipo di chitarra scegliendo quella più funzionale alla resa del brano. Anche se icona del Gibson-tone, quello di Joe negli anni ‘70 è ottenuto principalmente con una Fender Stratocaster della fine degli anni '60 (quelle con il palettone). Con queste registra quasi tutto, placando la sua sete iniziale per i registri alti. Il suo suono è estremamente brillante, in primo piano e distorto, mentre quello della Goldtop degli anni ‘50 di Brad è mixato molto più basso ed è più scuro e denso. Da questa combinazione nasce il loro imponente muro chitarristico e non è un caso che negli anni ‘70 i due seguano una regola: se uno suona Fender l’altro imbraccia una Gibson. Joe sarà anche uno dei primi chitarristi ad usare le B.C. Rich a dieci corde (sensazionale su Living On The Edge) ma a partire dalla reunion degli Aerosmith degli anni ‘80, egli userà in prevalenza le Les Paul.
La differenza tra Perry e Whitford è racchiusa in maniera palese in One Way Street: Brad fa il primo assolo di chitarra, è ben composto e il suo tocco, l’intonazione e il timing sono perfetti; il secondo assolo è invece di Joe ed è cool ma intonazione, tocco e tempo non sono come quelli di Brad.

SCHIANTO E RIPARTENZA
Dopo Rocks gli Aerosmith sono una band spremuta come un limone e ormai deragliante: vengono ricacciati di nuovo in studio dove, da separati in casa e con un Perry ormai apatico, partoriranno uno sgonfio Draw The Line (1977) e comunque ulteriore multiplatino, con dentro i picchi dello slide clamoroso di Joe che, nella selvaggia titletrack, imbraccia una Dan Armstrong Plexi accordata in open-A e dotata di una corda di basso (Mi) per ringhiare di più, e con dentro anche i brividi di Kings And Queens regalati da un Whitford magistrale.
Lo schianto sarà comunque inevitabile. Scopertisi truffati da sempre dal management e in drammatica bancarotta, esauriti e dilaniati dalle dipendenze e dalle tensioni fra Tyler e Perry, i Toxic Twins (gemelli tossici) come vengono chiamati. Joe mollerà il colpo sbattendo la porta dopo un disastroso concerto a Cleveland nel 1979, conclusosi con sua moglie che rovescia un bicchiere di latte in testa alla consorte di Hamilton ed un Tyler sbronzo marcio che salta su insultando Joe.

Altre rockstar per molto meno sono finite nel dimenticatoio o al camposanto. Non un duro a morire come Joe che nel 1984 farà ritorno negli Aerosmith rimettendo a posto le cose con il suo gemello Tyler e re-inserendo il turbo alla band, sparandola verso un’incredibile seconda vita ancora piena di riff passati alla storia.

2024
Quella degli Aerosmith è una delle carriere più inossidabili e folli della storia del rock, una di quelle che ha impresso solchi profondi e immortali... arresasi soltanto lo scorso agosto 2024 per l’irreparabile frattura alle corde vocali di Tyler.


1959 LES PAUL
Racconta Joe Perry: “Sì, le Les Paul del 1959 sono chitarre spettacolari. Quando avevo acquistato la mia, era diventata la chitarra da cui dipendevo. L’ho venduta a un certo punto, negli anni Settanta, per circa 4.500 dollari, quando avevo bisogno di soldi. Nel 1984, l’epoca della reunion degli Aerosmith, qualcuno che rappresentava Eric Johnson, mi aveva chiamato per dirmi che Eric aveva saputo che era stata la mia chitarra e si offriva di rivendermela allo stesso prezzo che l’aveva pagata. Non avevo i soldi, mi ero appena sposato e mia moglie era incinta. Qualche anno dopo ho iniziato ad avere abbastanza soldi extra per ricominciare la mia collezione di chitarre ed ho ripensato alla Les Paul. Ho deciso di rintracciarla e Brad [Whitford] il giorno dopo era entrato in studio dicendo: ‘So dov'è la tua chitarra!’ mostrandomi un numero di Guitar Player. Lì sopra c’era la storia delle chitarre di Slash e proprio al centro c’era una foto della Les Paul. Ho chiamato Slash per parlargli della possibilità di rivendermela, ma lui aveva reagito con: ‘Oh amico, per favore non chiedermelo...’ Gli ho risposto: ‘Capisco come ti senti, ma mi piacerebbe proprio riaverla...’ Abbiamo continuato per qualche minuto ancora e prima di riagganciare gli ho detto: ‘Fammi sapere’. Non ne abbiamo più parlato ma nel 2000, poco prima di salire sul palco a suonare con i Cheap Trick alla festa del mio 50° compleanno, mi è stata consegnata la chitarra e un messaggio: ‘Slash ti augura Buon Compleanno’. Sono andato fuori di testa!”
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“Raramente Joe suona i brani con le stesse chitarre. Potrebbe usare una Telecaster per Sweet Emotion una sera e una Les Paul per la successiva. Altre sere, invece, vuole solo imbracciare chitarre hollow-body [...] In quanto alla B.C. Rich a 10 corde, so che quando Joe la imbraccia, succede qualcosa di speciale! [...] La Frankenstein Burned Strat con la paletta capovolta è un’altra chitarra speciale: ha il manico di una Tele e due P-90 e ci abbiamo montato anche un VegaTrem...” (Darren Hurst – Joe Perry guitar tech)


“Rocks è stato scritto, concepito e registrato al Wherehouse a Waltham, nella periferia di Boston, il posto dove gli Aerosmith erano soliti provare: una stanza enorme, metallica, ruggente. Ho usato i monitor da palco per soffiare il suono verso di loro [...] Il segreto di quel disco? Distorsione. Tutto era totalmente saturato. Quando l’ho portato alla casa discografica, sono andati nel panico!” (Jack Douglas)

“La combinazione Les Paul/Marshall che Clapton ha usato nell’album dei Bluesbreakers sarà sempre un mio riferimento...” (Brad Whitford)

“Ho suonato le Les Paul praticamente per tutti gli anni Settanta. Ma ho registrato perlopiù con le Stratocaster. Mi è sempre piaciuto avere la leva e trovavo più facile ottenere suoni diversi con chitarre di quel tipo [...] Ho usato una Les Paul in Pandora’s Box [1974], Toys In The Attic [1975], Eat The Rich [1993] e Nine Lives [1997] e scommetterei che almeno uno dei miei assoli in Walk This Way [1975] è con una Les Paul. Quello che ho fatto dopo è stato con la Stratocaster.” (Joe Perry)

JOE PERRY gear

Elencare tutta la strumentazione utilizzata da Joe Perry negli anni è praticamente impossibile: estrapoliamo qualcuno degli strumenti che ha utilizzato più di frequente, ricercando quei suoni mostruosi, avvolgenti e caldi che caratterizzano le sue performance.

CHITARRE
Oltre alle già citate Gibson e Fender, tra le chitarre che Joe Perry porta più di frequente sul palco vi sono la Gibson Custom 1954 Oxblood, la Gibson BB King Lucille “Billie” bianca con l’immagine della moglie Billie raffigurata sopra e la stupenda e tigrata Gibson Boneyard.
L’amatissima Gibson Les Paul del 1959, venduta e tornata a casa vent’anni dopo, quando l’allora proprietario Slash gliela regala per il suo 50esimo compleanno, e la Fender Strat mancina, chiamata Frankenstrat, assemblata da Joe e Jim Servis con parti sopravvissute a un incendio: body Fender Strat e manico Tele Warmoth rovesciato, pickup Barden avvolti ad hoc per l’uscita del segnale più calda, e un battipenna verde dalla foggia straordinaria.

In aggiunta al suo gear: Gretsch Duo Jet 6/12 Doubleneck, BC Rich Mockingbird Double Neck, Danelectro ‘59 DC, Echopark (Ghetto Bird, Blue Rose, La Carne), Ernie Ball Silhouette 6-String.

Anche Brad Whitford utilizza nei ‘70 alcune delle prime chitarre marchiate BC Rich e Hamer. Negli anni ‘80, in occasione della reunion degli Aerosmith, Brad è un endorser di Paul Reed Smith, mentre oggi si porta in giro una serie sbalorditiva di Gibson, Fender e Gretsch.
Ad oggi, le due chitarre che predilige sono la sua Gibson Custom Shop Les Paul Red con tremolo Bigsby e una chitarra custom realizzata da Jim Triggs caratterizzata da un manico Tele-style e pickup P-90.

AMPLIFICATORI
Convinto fan degli ampli Marshall, perfetti per scaraventare sulle immense platee la potenza grezza del muro chitarristico degli Aerosmith, Joe Perry ha utilizzato i Plexi (uno costruito nel 1969 con valvole KT-66 e l’altro nel 1970 con valvole EL-34); JTM-45 (con valvole EL-34); Majors 200W (con KT88) e JCM-800.

Dal 1976 la testata Dave Friedman Dirty Sheila; inoltre, i Jet City JCA20H utilizzati in studio per gran parte delle registrazioni. Perry ha utilizzato anche Vox AC-30, combo Fender (per le registrazioni di Rocks) e amplificatori Wizard, che lui stesso descrive come la combinazione tra un Marshall e un Hiwatt.
Nei primi anni ‘80, Joe Perry, ed anche Brad Whitford, utilizzano i Bedrock costruiti nel New England. Dopo la reunion, Perry adotta anche la Morris Mo-Joe costruita appositamente per lui: si tratta di una testata con valvole EL-34 realizzata in stile Vox.
In questi ultimi anni, Perry ha utilizzato sul palco anche amplificatori e cab Gibson Goldtone.

EFFETTI
Nel corso degli anni le pedalboard di Joe Perry sono cambiate spesso e anche radicalmente. Un solo pedale pare sopravvivere al passare del tempo ed è il Klon Centaur che, in una variante o nell’altra, è costantemente parte del setup di Perry. Dalle fotografie che ritraggono la pedalboard usata per il tour con gli Hollywood Vampires del 2023, si può vedere che Perry ha deciso di lasciare l’ormai prezioso Klon Centaur a casa, per rimpiazzarlo con una replica, Il Warm Audio Centavo. Nella pedalboard vediamo anche un Carl Martin Compressor Limiter, un Colorsound Tone Bender, un Warm Audio Jet Phaser, un Ibanez TS9, un Xotic Ep Booster, un vecchio ElectroHarmonix POG, un pedale volume ed un Fulltone Mini Deja Vibe 3V2.

In quanto alle corde, Perry varia il set secondo la chitarra e le esigenze timbriche, affidandosi alle Ernie Ball con scalature 008, 009, 010.


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