THE WHITE BUFFALO "On The Widow's Walk"

di Francesco Sicheri
01 aprile 2020

intervista

The White Buffalo
Jake Smith
On The Widow’s Walk
Si è fatto conoscere all’inizio dei 2000 grazie al suo guitar playing che accompagna la sua voce baritonale, profonda ed espressiva, che convoglia la sensibilità di Bob Dylan e la forza d’urto di Richie Havens. Parliamo di Jake Smith – in arte The White Buffalo – e del suo "On The Widow’s Walk", in uscita il 17 aprile 2020…

Classe 1974, originario dell’Oregon ma cresciuto in California a punk e cantautorato folk, Jake Smith – nel suo progetto The Wihte Buffalo – convoglia le sue diverse influenze musicali condite da una voce calda e di grande pathos, conquistando negli ultimi vent’anni un gran numero di fan sparsi nel mondo.

Giusto per dare una informazione in più, la musica e la voce di Jake Smith sono state utilizzate nelle colonne sonore di svariate serie televisive, non ultima quella di “Sons of Anarchy” che ha catalizzato l’attenzione di mezzo globo per ben ben sette stagioni dal 2008 al 2014.

A due anni di distanza da Darkest Darks, Lightest Lights  il nome The White Buffalo torna a farsi sentire con un nuovo emozionante album titolato On The Widow’s Walk (………..etichetta)  In questo album – prodotto...

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da Shooter Jennings – fantasmi e storie dall’oscuro romanticismo si susseguono, accompagnate da un guitar playing tagliato su misura su una voce così peculiare. Proprio con Jake Smith abbiamo colto l’occasione di parlare del nuovo album e di come il mondo di The White Buffalo sia cambiato nel corso delle ultime due decadi.
 
Jake, è un vero piacere poter fare quattro chiacchiere con te. Come stai? Dove ti trovi al momento?
Anzitutto vi ringrazio per aver voluto dedicare del tempo alla mia musica, il piacere è sicuramente mio. In questi giorni sono a casa, in California per la precisione, ho appena fatto qualche data dal vivo - delle cose molto semplici in acustico giusto per tenermi allenato in vista del tour che seguirà - e continuerò nei prossimi giorni con qualche altro appuntamento live così da iniziare ad introdurre alcuni dei nuovi brani agli ascoltatori. Sono sempre un po’ nervoso prima di presentare del materiale inedito al pubblico, speriamo quindi tutto vada per il meglio. In generale mi sto preparando per la tournée che inizierà in concomitanza con la pubblicazione dell’album e che teoricamente dovrebbe passare anche dal vostro paese.
 
Giusto. Al momento (l’intervista è stata realizzata nei giorni immediatamente precedenti il lockdown che ha coinvolto la Lombardia, nda) hai qualche tipo di notizia riguardo alla gestione del tour in funzione di ciò che sta succedendo a causa del coronavirus? Pensi riuscirai a passare dall’Italia?
La situazione non è semplice. Posso dire che oggi, nel giorno in cui parliamo, tutto è ancora confermato, ma è ovvio che la faccenda sta andando in una direzione molto particolare, soprattutto con l’aumento dei casi anche negli Stati Uniti. Ahimè posso solo dire che mi piacerebbe davvero molto tornare in Italia, adoro il vostro paese e sono determinato nel voler portare la mia musica da voi se le condizioni lo permetteranno. Spero che nel momento in cui queste pagine arriveranno in edicola si avranno anche dei dettagli più certi riguardo allo svolgimento del tour. Nel frattempo vi auguro soltanto di gestire la cosa al meglio, così da facilitare il passaggio del problema nel migliore dei modi.

Passiamo a cose più positive per il momento, parliamo del nuovo album firmato White Buffalo: "On The Widow’s Walk". Vuoi parlarci di come è nato il titolo del lavoro?
Tutto è partito per essere un concept album. Si tratta di una tipologia di lavoro che ho già esplorato in passato e che spesso si addice molto bene al mio modo di scrivere, pertanto ho pensato fosse un buon modo per approcciare la scrittura del nuovo materiale. “widow’s walk” voleva essere una sorta di storia, tragica e romantica, basata sull’idea che nelle città di mare, dove pescatori, navigatori e marinai approdano e ripartono, c’è l’usanza di costruire dei balconi molto grandi sui tetti delle case, dove le donne erano solite aspettare i propri uomini. Molti di quest’ultimi non sono mai tornati dal mare, ecco il significato di “widow’s walk”.
L’idea del concept album è poi sfumata perché ho capito che questa volta avrei avuto bisogno di una tipologia di lavoro più “aperta”, che mi lasciasse incorporare storie di vario tipo, cosa che ovviamente il concept non mi avrebbe mai consentito di fare in modo libero.
 
Malgrado non si sia trasformato in un concept album a tutti gli effetti, i brani di "On The Widow’s Walk" sono connessi fra di loro… diciamo che c’è una sorta di filo conduttore. Ti sei dato una traccia da seguire mentre scrivevi i brani dell’album?
Bella domanda… penso che la risposta sia a metà fa sì e no. Questo perché con Shooter Jennings abbiamo cercato di costruire una sorta di narrativa che potesse scorrere fra i brani, ma non posso certo dire di aver avuto sempre in mente una sceneggiatura. Credo che il risultato finale sia qualcosa che si mostra in maniera molto più connessa di quanto lo fosse realmente durante la scrittura.

Per un autore, o un cantautore, una delle scelte più semplici è quella di guardare alla propria vita per poi trasferirla nella scrittura dei brani, molte delle tue storie invece nascono quasi come racconti di finzione. Come ti relazioni al materiale che scaturisce dalla tua esperienza diretta per poi mescolarlo a qualcosa di inventato?
Devo dire che a volte diventa una sfida scrivere di qualcosa che non è accaduto nella tua vita, come lo è una storia inventata appositamente per un brano, e cercare di farlo sembrare verosimile o comunque dargli una veste alla quale le persone possano guardare senza sentirsi per forza estraniate dal racconto. A volte mi serve quasi “umanizzare” le mie storie, che parlano spesso di uomini e di donne, ma a volte serve aggiungere qualcosa che permetta a chi ascolta di relazionarsi al contenuto del brano. Non è per nulla facile, ma nel momento in cui ci si impegni nel farlo si scopre presto che con questa tipologia di scrittura si riesce anche a dare vita a brani al limite del fantastico, dando loro una connotazione più “verosimile”. Prendo ad esempio un brano come The Rapture, che racconta qualcosa di molto oscuro e strano ma allo stesso tempo riesce a porsi su un piano che ognuno di noi può comprendere e con il quale si può relazionare. Nel corso del tempo mi sono reso conto che anche quando si scrive qualcosa di completamente inventato c’è sempre un modo di poter connettere il contenuto alla nostra vita di tutti i giorni. Sia per quanto riguarda la mia musica, sia per quanto concerne ciò che guardo in Tv, quello che leggo, oppure quello che ascolto, propendo sempre più un tipo di narrativa “dark”, ma questo non vieta anche a persone che non sono solite bazzicare quel tipo di sentimenti, di avvicinarsi alla mia musica e comprenderla.

Quanto di ciò che succede nella politica, nel mondo circostante e nella società finisce per dare spunti per i tuoi brani? A tutti gli effetti viviamo in tempi che offrono molti spunti…
Su questo non ci piove, purtroppo, però in tutta onestà non penso di aver mai scritto un brano a partire da un evento politico, o dall’affermazione di un politico… Questo è quasi sorprendente andando poi a vedere quanti dei miei brani finiscono per essere in realtà capaci di raccontare in maniera abbastanza chiara degli eventi e delle dinamiche che hanno a che fare con la realtà socio-politica che ci circonda. Si tratta però di un riflesso involontario, non di una mia specifica ricerca. Non sono uno di quegli artisti sempre interessati al mondo circostante, anzi posso dire di vivere in una sorta di bolla di sapone che un po’ mi protegge anche da tutte quelle informazioni che potenzialmente tutti i giorni potrebbero rendermi una persona molto più negativa ed arrabbiata. Seguire le news quotidianamente non è sempre qualcosa di positivo, sembra assurdo dirlo, ma è così.

Per quanto riguarda il tuo processo creativo sei solito pensare prima alla musica o alle parole?
Non penso di poter scindere le due cose, perché per la maggior parte della mia carriera non ho fatto altro che sedermi con la mia chitarra, iniziare a suonare qualche nota e immediatamente cantarci sopra delle parole e delle melodie. Le due cose non sono divise, perché scrivere un brano per me è fondamentalmente qualcosa che ingloba parole e musica allo stesso tempo. Nella maggior parte dei casi tutto parte da qualche nota sulla chitarra, alle quali poi seguono immediatamente delle parole improvvisate. Da quel momento in poi si tratta di affinare e perfezionare la ricetta.

Da "Hogtied Like a Rodeo", che è il tuo primo album, hai pubblicato svariati EP e alcuni LP. Come pensi si sia evoluto il tuo modo di scrivere musica nel corso del tempo?
Devo dire che questa domanda casca proprio a pennello, perché non è stato molto tempo fa che parlando con altre persone ho iniziato a guardare come questo nuovo album arrivi oggi dopo tutto il percorso fatto fino ad ora. Mi ha sorpreso il modo in cui la mia musica sia cresciuta andando per sottrazione, sia sul piano degli arrangiamenti, sia per quanto riguarda i temi trattati. In passato ho scritto di storie molto intricate con personaggi complicati e con intrecci a volte anche un po’ troppo articolati, mentre di recente mi sono concentrato maggiormente su qualcosa di più semplice… e forse più universale. Ho comunque capito che alcune cose non sono mai cambiate rispetto al passato, ovvero che spesso quando scrivo del materiale non lo rielaboro troppe volte. Cerco sempre di prendere ciò che scaturisce creativamente e di usarlo così per come è nella sua forma primordiale, andando poi ad affinare la sua qualità ma non a cambiarne eccessivamente la struttura.
 
Cosa succede quando entri in studio di registrazione? Sei uno di quei musicisti che preferisce arrivare in studio con un piano molto chiaro in mente, oppure ti concedi lo spazio per creare anche quando sei in fase di registrazione?
Per On The Widow’s Walk siamo arrivati in studio con dei brani già molto strutturati. Ogni traccia dell’album aveva già una sua impronta molto evidente e quindi si è trattato più che altro di un lavoro di revisione e di variazione dinamica degli arrangiamenti. La musica che esce a nome White Buffalo non è niente di troppo esuberante o di “esibizionista”, quindi quando si entra in studio ciò che conta realmente è il lavoro sulla bigger picture piuttosto che sulla singola traccia di chitarra (ad esempio) eseguita per milioni di volte prima di trovare la giusta take.

Nella realizzazione dell’album il ruolo di una personalità creativa come quella di Shooter Jenning cosa ha portato al risultato finale?
Devo dire che lavorare con Shooter come produttore è stato molto interessante, perché mi ha dato l’opportunità di guardare a questo progetto con una diversa prospettiva. Il lavoro di Shooter è stato fondamentale soprattutto sulla scelta delle sonorità, della strumentazione e dell’orchestrazione generale dell’album, perché è stato lui a definire il “colore” sonoro di tutto il lavoro. Avere una mente come la sua al mio fianco è stato utile anche per togliere a me l’ingombro di dover ricoprire troppi ruoli, questo ovviamente mi ha permesso di dare più spazio al processo creativo, senza dovermi preoccupare di cose che - ed è giusto che sia così - possono essere gestite in maniera migliore da persone più brave di me. Christopher Hoffee, che è il bassista del progetto, è stato l’altro asso nella manica durante la lavorazione di On The Widow’s Walk perché non solo ha registrato tutte le parti di basso, ma si è anche occupato di creare, organizzare e registrare tutte le parti di chitarra elettrica che fanno da collante fra la mia acustica ed il resto della strumentazione.
 
Come si sono svolte le registrazioni dell’album? Sappiamo che la musica firmata White Buffalo ha sempre privilegiato un tipo di lavorazione “old-school”.
Anzitutto voglio sottolineare che questo nuovo lavoro è senza ombra di dubbio quello che più di tutti è nato come progetto corale. In passato ho spesso fatto il più del lavoro da solo per poi chiedere una mano a musicisti come Chistopher Hoffee (basso) e Matt Lynott (batteria) per completare il tutto, ma questa volta le cose sono andate diversamente. Penso che il motivo dietro a questo cambio di rotta risieda anche nella presenza di Shooter Jennings e nella sua volontà di dare spazio ad un lavoro che fosse più vicino a quello di una band piuttosto che a quello di un “cantautore accompagnato”. L’album è stato registrato in sei giorni, lavorando tutti i giorni quasi dodici ore al giorno, ed il tutto è stato registrato sempre in presa diretta con me Matt e Chris insieme in studio. Super old-school, e penso che questo si senta dai brani e dal modo in cui arrivano all’orecchio in maniera organica e “viva”. C’è una sorta di sensazione di “movimento” quando si registra in questo modo, perché con la presa diretta sembra che i microfoni peschino anche l’aria che circonda i musicisti. Probabilmente è solo una sensazione ma si tramuta in un risultato più naturale.
 
Siete soliti provare molto prima di entrare in studio per registrare in questo modo?
No, assolutamente no (ride). Probabilmente dovremmo, ma la verità è che non siamo uno di quei gruppi che hanno bisogno di trovarsi per ore ed ore a provare i brani. Uno dei motivi è che le strutture della nostra musica non sono molto intricate, e l’altro è che il lavoro in studio di registrazione comprende anche il processo di conoscere i brani insieme, penso che se togliessimo quella parte per arrivare in studio completamente coscienti di ogni particolare finiremmo anche per levare al lavoro in studio la sua componente creativa. Mi piace pensare che il modo in cui registriamo offra a chi ascolta uno spaccato molto onesto e diretto di ciò che accade dietro il nome White Buffalo.

Jake cosa ci dici del tuo rapporto con la chitarra, è sempre stato rivolto ad un tipo di accompagnamento come quello che ascoltiamo in questo album, oppure è iniziato in maniera diversa?
La chitarra è stata il primo strumento sul quale ho messo le mani, in maniera molto naturale direi che mi ha attirato più di altri e sono finito per amarlo fin da subito. Il mio essere chitarrista è sempre stato rivolto alla scrittura, non sono un virtuoso, non sono uno specialista delle sei corde, sono piuttosto una persona che ha sempre badato più al suono ed all’utilità dello strumento all’interno di un progetto. Detto ciò, malgrado io non sia assolutamente in grado di cimentarmi in soli intricati o in parti solistiche che richiedono molta tecnica, ho messo molto impegno nello sviluppare un buon orecchio per il sound dello strumento, cosa che nel tempo mi ha portato ad avvicinarmi al brand Taylor ed alle sue chitarre. Sembra quasi assurdo da dire ma potrei suonare uno strumento a caso di quel catalogo ed essere sicuro di trovare qualcosa con cui riuscire a dare voce ai suoni che ho in mente. Non sono mai stato capace di sviluppare una relazione simile con nessun altro marchio.

Jake, è stato un piacere parlare con te, speriamo davvero di vederti presto in Italia.
Me lo auguro anche io ragazzi. Mi raccomando, tenete duro.


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