JARED JAMES NICHOLS, il terzo album in studio
intervista
Classe 1989, originario dei Wisconsin statunitense, Jared James Nichols è uno di quei chitarristi che affascinano tanto per la semplicità della sua proposta, quanto per le solide conoscenze tecniche riconoscibili all’istante. Il suo è un rock che affonda le radici nella tradizione blues con fierezza, ma che non dimentica di rendere tributo a tutte quelle influenze assorbite crescendo tra gli anni ‘90 ed i primi 2000.
Jared James Nichols esce il 13 gennaio per Black Hill Records, e con dodici brani carichi di pathos si presenta come la più completa e compiuta manifestazione della personalità artistica di Nichols. JJN spazia dal grunge al blues, passando naturalmente per il classic rock ma anche per qualche accento più heavy e, a fare da collante al tutto, quel guitar playing rovente che ha portato Nichols a farsi conoscere...
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nel globo.
Niente plettro, solo dita, questa è da sempre la ricetta fondamentale di JJ Nichols e, a fare da corredo a questa filosofia, un setup estremamente semplice, perlomeno tanto quanto lo sono le Les Paul con un singolo P90 che lo contraddistinguono. Non è solo una scelta stilistica, ma anche qualcosa che gli è stato instillato da un’incredibile esperienza maturata al fianco degli Aerosmith e di Joe Perry in particolare. Insomma, con JJ Nichols c’è sempre molto di cui parlare, e così l’abbiamo raggiunto in video-chiamata per farci raccontare qualcosa di più del nuovo album, e per fargli qualche domanda molto schietta riguardo alle sue signature realizzate insieme ad Epiphone Guitars. Questo è quello che ci ha detto.
Ciao Jared, come stai? Come vanno le cose?
Hey, grazie per aver chiamato, qui va tutto bene, ed è già qualcosa di incredibile visto quello che succede nel mondo da qualche tempo.
Proprio mentre la pandemia stava prendendo il largo tu eri in Europa, non è vero?
Sì, assolutamente. Ricordo che nel mezzo di quel tour europeo ci siamo trovati fermi a causa dei primi casi di Covid. Inizialmente non sembrava niente di catastrofico, ma le cose sono cambiate molto presto. Quando ci hanno detto che avremmo dovuto interrompere il tour, è suonato abbastanza assurdo. Ricordo che in quel momento ho pensato che sarei tornato in Europa nell’arco di un paio di mesi, ma ovviamente le cose sono andate in maniera diversa.
Jared, oggi siamo qui perché hai un nuovo album in studio pronto per la pubblicazione, il terzo della tua carriera. Come ti senti nell’aver raggiunto questo traguardo?
Bella domanda. Francamente penso che questo nuovo album sia una conferma di quanto ho fatto fino ad ora, ma allo stesso tempo anche una sorta di rilancio verso qualcosa di nuovo. Ho registrato il mio primo album convinto di esprimere il meglio di quello che avevo in mente, e allora era così. Ma quando lo riascolto oggi non mi ritrovo completamente in quel tipo di tracce. Il secondo album è nato in mezzo a un tour estenuante, e pertanto è anche stato vittima di un momento della mia vita che non era del tutto chiaro. Questo terzo album è un progetto nel quale mi riconosco molto più chiaramente. Penso sia un album capace di rivelare i miei tratti principali, senza puntare il dito su un elemento specifico.
Leggendo le note stampa prima di questa chiacchierata, è stato impossibile non notare la frase “Ho realizzato questo album un po’ come se fosse un menù per gli show dal vivo.” Una volta entrato in un ambiente di studio, come hai fatto a mantenere quell’energia e quella dinamicità che caratterizza i tuoi live?
Onestamente è stata la sfida più grande che io abbia mai affrontato fino ad ora. Quando si tratta di salire sul palcoscenico sono sempre pronto a mettere in campo ogni energia; quando si tratta però di entrare in studio le cose cambiano parecchio. Ogni nota suonata, diventa quindi molto più calibrata e ragionata. Una delle cose che mi ha aiutato maggiormente è stata registrare la maggior parte dell’album con la band in studio, in presa diretta. Le sovra-incisioni sono state pochissime, onestamente anche quasi evitabili, e penso che questo tipo di approccio abbia fornito all’album una spinta molto più “live” di quanto avrebbe avuto altrimenti.
Il nuovo album, Jared James Nichols, racchiude molto più di quanto hai fatto ascoltare fino ad ora, ma il blues resta l’ispirazione principale per la tua musica. Come fai a mantenere sempre fresco e non scontato un genere, come il blues appunto, molto legato alle sue strutture?
Domanda veramente interessante. L’idea alla base di ciò che faccio è il voler provare a mescolare tutte quelle sonorità che mi hanno “cresciuto” sul piano artistico. Il blues è la matrice fondamentale, ma nella mia vita ho sempre ascoltato molti altri tipi di musica e, in generale, ritengo che sia importante cercare di incorporarli il più possibile nei miei album. Devo dire che per molti chitarristi è facile, oggigiorno, lanciarsi nel mondo blues, e questo soprattutto per via di quelle strutture alle quali fai riferimento.
Interessante, vuoi dirci qualcosa di più?
Mah, sai… penso che sia molto facile attenersi a dei canoni pre-esistenti così da non incappare in troppi errori. Ovviamente bisogna raggiungere un certo livello qualitativo, ma è molto più semplice sposare appunto canoni rodati da altri, che provare a mescolare le carte in tavola. Io stesso l’ho fatto con il mio primo album.
Quindi stai dicendo che il blues è un’isola felice nella quale adagiarsi?
Sì, esattamente. Credo sia molto facile indugiare in quello che sappiamo essere efficace. Nel blues, ad esempio, la pentatonica è qualcosa di fondamentale ed allo stesso tempo abusato. E questo perché è molto più semplice fermarsi all’imparare quel che è già stato collaudato da altri.
Ti è mai successo di finire intrappolato nella gabbia del chitarrismo-blues odierno fatto di lick o riff pre-confezionati?
Senza dubbio. Penso che sia impossibile essere un chitarrista rock e non essere influenzato dal blues. Quel che fa la differenza è il modo in cui si riesce ad uscire da quegli schemi. Per meglio dire, è fondamentalmente impossibile non passare dalla goduria di una pentatonica, ma quello che fa la differenza è il modo in cui si decide di proseguire… se si decide di farlo.
A questo proposito, molti chitarristi della tua età, e non solo, si trovano un po’ imbrigliati in quel tipo di approccio…
E’ vero, ma devo dire che parecchi chitarristi venuti dopo la mia generazione stanno cercando di distanziarsi da quel tipo di approccio. Credo sia una sorta di movimento generazionale, perché dopo aver ascoltato i grandi classici per decenni è normale voler ampliare i propri orizzonti ed incorpare elementi nuovi. A volte però sono le stesse chitarre a portarci verso determinate sonorità o determinati modi di suonare. Quando si prende in mano una Stratocaster è quasi impossibile non suonare qualcosa di SRV o di Clapton, e lo stesso vale per una Les Paul.
Cosa vuol dire “incorporare elementi nuovi”?
Ritengo che sia soprattutto un modo di vivere la musica. Non esiste una ricetta per scrivere un brano che abbia un sound nuovo. Tutto dipende dal modo in cui una determinata parte di chitarra viene suonata ed approcciata. L’intenzione è ciò che conta maggiormente, perché è anche quello che ti porta ad utilizzare l’istinto e a prendere certe idee al volo. Ragionando a priori sul suono di un brano o della propria chitarra, corri il rischio di seguire tracce altrui. Ho sempre voluto provare a fare qualcosa di mio, qualcosa che io sentissi naturale, e ci provo ancora tutti i giorni.
Per questo hai abbandonato il plettro per usare soltanto le dita?
Sì, è stato parte della decisione di seguire una mia ricerca personale. Ho lasciato gli studi al Berklee College perché sentivo di essere sempre più ingabbiato all’interno di qualcosa che era uguale per tutti gli altri studenti. Non rinnego nulla e, anzi, invito chiunque a studiare musica, ma suggerisco anche di mantenersi vigili nel capire come non uniformarsi a determinati schemi e contesti. Scegliere di suonare senza plettro è stata una scelta che mi è venuta naturale: consapevole, ma naturale, visto che dopo essere rientrato da Boston mi sono ritrovato a suonare senza plettro sempre più spesso. Sentivo che quel tipo di approccio mi dava una libertà che non avevo con il plettro, e così ho continuato su quella strada.
Torniamo al tuo nuovo album… Down The Drain è il singolo che lo ha annunciato, e c’è da dire che si tratta di un brano con delle pesanti influenze dei ‘90…
Sono d’accordo, e penso sia una buona espressione di quello che considero il mio modo di pensare il rock, il che significa unire il blues a tutta la musica che ha influenzato la mia vita. Gli anni ‘90 sono stati una parte fondamentale della mia vita, e pertanto mi viene naturale inserire nella mia musica certi elementi che ho metabolizzato per anni nei miei album preferiti.
Down The Drain riporta alla mente certi brani dei Soundgarden…
Oh, posso capire il perché, e ne sono contento!
Non solo per le sonorità del brano, ma anche per il modo in cui hai approcciato le parti cantate.
Grazie, è un gran complimento per me. Credo che quel tipo di approccio sia stato semplicemente un riflesso di tanti ascolti fatti in passato. Non ho pianificato molto le cose, anzi, una volta in studio, devo dire che ero anche abbastanza dubbioso riguardo al risultato finale.
Anche Shadow Dancer è un brano che colpisce per il suo mood, ed anche qui si respirano certi umori provenienti da un certo filone rock degli anni ‘90.
E pensare che inizialmente non volevo neanche includere Shadow Dancer nell’album e se è nella tracklist è solo grazie a Eddie, il mio produttore! [Eddie Spear] Quando ho terminato di registrare il brano ero assolutamente convinto di non averci tirato fuori niente di buono, ma lui mi ha dissuaso dal volerne registrare una nuova take. Oggi sono contento di aver seguito il suo suggerimento.
In parecchi momenti dell’album si percepisce quanto le note mantengano quell’attacco massiccio e pesante che caratterizza il tuo guitar playing. Vuoi provare a dirci come riesci ad ottenere questo risultato anche senza utilizzare il plettro?
Ritengo che abbia a che fare con il tipo di forza che si imprime sulla corda. Non è necessaria troppa forza, ma sicuramente per avere un attacco bello rotondo e capace di bucare il mix occorre colpire la corda in maniera decisa. Inoltre, spesso vado a strappare la corda invece che colpirla, il che non è troppo diverso dalla tecnica slap, e anche questo aiuta a determinare quel tipo di attacco. Devo comunque aggiungere che suonando con le dita da molti anni, ho sviluppato dei calli che aiutano parecchio a far somigliare le dita a dei plettri. Volendo dare un consiglio al riguardo, meglio non lasciarsi spaventare quando, all’inizio, le dita fanno male oppure le corde non rispondono come vorremmo, è questione di tempo e di esercizio.
A proposito di esercizio, segui una routine quotidiana oppure hai un approccio più libero?
Decisamente un approccio più libero, ma è venuto dopo che ho passato anni ed anni a praticare in maniera sistematica. Oggi la mia pratica sulla chitarra è molto più legata alla scrittura di brani e alla preparazione di un tour, ma una volta praticavo in maniera metodica. Credo sia un aspetto naturale della vita di un musicista, esercitarsi per anni per poi arrivare a non avere più tempo per farlo e finire per imbracciare lo strumento con altre intenzioni. Io però dico che chi pensa di poter evitare l’esercizio e di passare subito alla seconda parte del percorso, si troverà ben presto con delle brutte sorprese.
Jared, facciamo due chiacchiere da nerd? Vogliamo parlare di chitarre?
Temevo non me l’avreste chiesto! [ride]
Anzitutto raccontaci qualcosa delle registrazioni del nuovo album, hai utilizzato uno di quei tuoi setup molto minimali?
Il più minimale possibile, chitarra, amplificatore e giusto un paio di pedali, perché malgrado siano molto divertenti, ho scoperto che possono essere la peggiore delle distrazioni per me. In più, devo ammettere che con le chitarre e gli amplificatori Blackstar che sono solito utilizzare non ho sentito il bisogno di aggiungere troppo altro volendo mantenere lo spirito dell’album il più simile possibile a quello dei miei show.
A proposito di Blackstar, la tua JJN-20R Signature ha decisamente raccolto il consenso dei chitarristi… ricordiamo che si tratta di una testata valvolare, caratterizzata peraltro da un rapporto qualità-prezzo molto interessante.
E’ stata una vera soddisfazione lavorare a questa testata accanto a Blackstar e raccogliere un tal risultato! Ero sicuro che sarebbe stato un amplificatore che molte persone avrebbero potuto acquistare. Da appassionato chitarrista, ho sempre guardato ai prodotti signature dei miei artisti preferiti come a qualcosa di completamente inarrivabile; viceversa, sapere che l’acquisto di una JJN non richieda cifre da capogiro è qualcosa di cui vado molto fiero.
Pensi che seguirà una nuova versione?
Non vedo perché no, ma al momento non c’è nulla sul tavolo da studiare in tal senso. Al momento la JJN-20R va più che bene! [ride]
Negli ultimi anni sei diventato il perfetto esempio per provare a sfatare quel pregiudizio che vede Epiphone come un sotto-marchio di Gibson…
Oh sì, per quanto mi riguarda è una vera e propria missione!
Hai collaborato con Epiphone alla messa a punto di due tue chitarre signature, Old Glory e Gold Glory… di base una vera e propria dichiarazione di intenti.
Yeah. Sono felice di sentirlo dire, perché significa che ho raggiunto il mio obiettivo. Sentite, non è difficile capire cosa faccia costare una Gibson cifre molto più ingenti rispetto alle due Epiphone di cui dicevamo e, naturalmente, le regole del mercato giocano un ruolo importante nella definizione dei prezzi, ma quello che abbiamo fatto con Old Glory e Gold Glory è dimostrare che con materiali selezionati ed una manifattura pertinente, si possono realizzare strumenti incredibili anche a cifre contenute. Entrambe le mie signature sono accessibili e al contempo sono chitarre vere, di quelle che possono durare una vita intera, mi spiego?
Non a caso chi viene a vedere un tuo show può ascoltare tanto le tue Gibson quanto le due signature Epiphone ed apprezzare come queste ultime sappiano comportarsi vicino a mostri sacri come la Old Red o altre delle tue Gibson…
Sono completamente d’accordo e per me è importante continuare a dimostrare al pubblico che quelle due Epiphone signature sono chitarre che io stesso sono fiero di imbracciare sul palco. Del resto, sarebbe stupido da parte mia avere due chitarre signature e non usarle… In altre interviste mi hanno chiesto se le mie Epiphone sono modificate o in qualche modo diverse da quelle vendute nei negozi: la verità è che sono originali al 100%. Le uso, anzi le abuso, in ogni modo perché so di avere in mano chitarre solide e performanti e con quelle caratteristiche che ricerco anche in una Gibson della stessa tipologia. Ovviamente non dirò mai “state acquistando la stessa Gibson ma a un terzo del prezzo” perchè significherebbe mentire. Quel che tengo a dire è che Old Glory e Gold Glory sono costruite con tutti i crismi del caso, con legni selezionati nell’ottica dell’abbattere i costi, ma con la stessa elettronica, hardware e pickup presenti sulle mie Gibson. Ritengo che sia un compromesso valido ed onesto. Oltre a ciò, io per primo sono interessato a sapere quante altre chitarre nella stessa fascia di prezzo possano offrire una qualità maggiore. Se qualcuno ha la risposta, sono curioso di saperla! [ride]
Entrambe le tue signature sono chitarre semplici, con un solo pickup, un controllo di tono ed uno del volume, viene quindi naturale chiederti quale fosse l’obiettivo in fase di produzione…
Un solo obiettivo: dare vita a repliche fedeli delle mie chitarre, che potessero essere vendute a cifre accessibili. Come avete giustamente sottolineato, non si tratta di chitarre complesse e ciò ha giocato un ruolo fondamentale. Non c’è “magia” dietro queste Epiphone, ma solo tanta concretezza: cosa che è anche il mio motto.
Come tutti già sapranno molto bene, ti sei fatto conoscere per chitarre solitamente con un singolo pickup, meglio se un P90. Si tratta di una configurazione che spaventa più d’uno, nel tuo caso ti sei mai sentito bloccato da quel singolo pickup?
Certamente. Avere un solo pickup è una vera e propria sfida, per chiunque. Se qualcuno dice che non è così sta mentendo. Quando una chitarra elettrica non dispone delle opzioni sonore date da pickup diversi, sono la nostra mente e la nostra astuzia a dover entrare in gioco, e questo è sicuramente un aspetto che può spaventare in prima battuta. Io però invito tutti a provare, perché il nostro playing si modifica notevolmente quando ci abituiamo a suonare con un solo pickup, ed anche il nostro istinto si affila parecchio. Il risultato finale è un controllo maggiore dello strumento, e quando ci ritroveremo a disporre di più di un pickup, scopriremo di aver compreso nel profondo il modo in cui la chitarra risponde al nostro tocco.
La tua iniziazione a chitarre con un singolo pickup la si deve a Joe Perry degli Aerosmith, giusto?
Eh sì, è divertente. Ero proprio agli inizi, avevo appena formato un trio e stavamo provando il nostro materiale nello stesso studio in cui gli Aerosmith avrebbero registrato il loro ultimo album. Un giorno Steven Tyler è entrato nella sala in cui stavamo provando e ci ha invitato ad unirci a loro. Così abbiamo passato diversi mesi insieme ed ho imparato moltissimo guardandoli preparare i brani di quello che sarebbe stato allora il loro nuovo album. Joe Perry un giorno mi ha chiesto che chitarra stessi utilizzando e non è rimasto così impressionato da quel che avevo, così ha tirato fuori dal suo rack una Les Paul Custom del ‘68 alla quale era stato tolto tutto tranne il pickup al ponte. Da lì in avanti mi sono innamorato dell’idea di una Custom con un solo pickup… Anni dopo, eccomi qui con due signature che sono semplicemente delle Custom con un solo P90! [ride]
Jared, resteremmo volentieri a parlare ancora un po’, ma sappiamo che sei impegnato. Sai dirci se hai in programma un passaggio in Italia nei mesi a venire?
Sono assolutamente intenzionato a tornare nel vostro Paese. Non ho ancora nulla di ufficiale da annunciare, ma spero di potervelo confermare molto presto.
Che dire JJ, grazie del tempo che ci hai dedicato.
Grazie a voi, è stato un vero piacere!
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