DAVID RHODES "Mary e lo spirito di mezzanotte"
intervista
Nato a Londra nel maggio del 1956, David Rhodes ha speso più di quarant’anni alla corte di Peter Gabriel, lavoro che ha sicuramente segnato la sua carriera in maniera profonda. Oltre ad aver messo la sua firma chitarristica su molti brani di Mr. Gabriel, Rhodes si è reso partecipe di un gran numero di altri progetti: da Flowers In The Dirt di Paul McCartney nel 1989 a The Colour of Spring dei Talk Talk nel 1986, passando per L’imboscata (1996) e Gommalacca (1998) di Battiato, per Mystery Girl (1989) di Roy Orbison ed anche Before the Dawn (2014) di Kate Bush. Il più recente i/o di Peter Gabriel è soltanto uno dei molti exploit musicali che l’hanno visto partecipe dal 1979 in poi, ma oltre al lavoro in studio di registrazione e sul palcoscenico, Rhodes da tempo ha prestato la sua arte alla musica per film.
Era il 1998 quando il...
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fenomeno cinematografico de La Gabbianella e il gatto di Enzo D’Alò dilagava in Italia e fuori confine. Proprio per quella pellicola D’Alò aveva lavorato con Rhodes alla realizzazione della colonna sonora, dando il via ad un rapporto di collaborazione destinato a durare nel tempo.
Mary e lo spirito di Mezzanotte viene presentato a fine 2023 alla Berlinale, riportando sotto i riflettori l’unione d’intenti del regista e del compositore britannico. Il film, tratto dal romanzo A Greyhound of a Girl di Roddy Doyle, è stato protagonista del Tuscia Film Fest 2024, manifestazione che si tiene annualmente a Viterbo, ed alla quale hanno preso parte sia D’Alò, sia Rhodes. Con l’occasione di un incontro diretto con David Rhodes, il quale in Italia ha ormai una base, l’abbiamo raggiunto per una chiacchierata a tu per tu, svoltasi un po’ passeggiando per le vie di Viterbo, un po’ all’interno della cornice del Festival.
Sai David, riascoltare Life’s What You Make It dei Talk Talk si rivela ogni volta un’esperienza veramente interessante...
Lo è anche per me. Sono rimasto molto toccato dalla morte di Mark David Hollis nel 2019. Lavorare con loro è stato molto particolare.
Hai fatto due album con loro, giusto?
Sì, esatto. Soprattutto di The Colour Of Spring, da cui è tratta Life’s What You Make It, ho dei ricordi molto vividi. Ci sono delle belle sensazioni legate a quell’album, ad esempio ho delle immagini molto chiare di quello che facevo al mattino. Mi alzavo presto, facevo una corsetta, e quando rientravo mi ritrovavo a colazione con Mark. Sono piccole cose e non hanno a che fare con la musica, ma lasciano un segno molto profondo. Devo dire di aver avuto la fortuna di conoscerlo in un modo molto bello, privato.
I suoni di quell’album, The Colour Of Spring (1986), ancora oggi appaiono moderni. Hai avuto la stessa sensazione anche a quel tempo?
Oh sì, assolutamente. Ricordo di aver portato con me alcuni pedali per le session di Life’s What You Make It, e ricordo che mi hanno chiesto di utilizzare un amplificatore MESA/Boogie. La cosa più bella di quei suoni, però, è che Mark mi chiese espressamente di tirare fuori some fucked up sounds, ovvero dei suoni distrutti, ridotti uno schifo (più letteralmente dei suoni del ca**o).
Con quel tipo di sonorità solitamente ci si diverte molto...
È vero, soprattutto perché aiutano a liberare il lato più espressivo e creativo dell’esperienza. Mi sono lasciato prendere molto dal creare quel tipo di suoni per la band. Di quelle registrazioni ho un aneddoto divertente, che ho raccontato anche altre volte. Mark mi chiese se conoscessi un clarinettista di nome Acker Bilk, che al tempo si vedeva spesso su molti canali televisivi inglesi. È diventato famoso per il brano Stranger On The Shore... Aveva un look particolare, quasi da barbiere, e portava sempre in testa una bombetta. Mark mi chiese se potessi provare a ricreare dei suoni simili a quelli di Acker Bilk, e quel tipo di input è ciò che ha portato all’introduzione che si ascolta su Life’s What You Make It. Ricordo anche che mi pagarono qualcosa come £120,00 per quella traccia...
Una registrazione molto conveniente...
Per loro sì. [ride]
David, questa intervista è iniziata prima che potessimo fermarci e registrare, ed ora è il momento giusto di ufficializzare il motivo per cui siamo qui. È un’occasione molto importante, perché si tratta del nuovo film di animazione di un regista italiano, Enzo D’Alò, dal titolo "Mary e lo spirito di mezzanotte".
Esattamente. Con Enzo ci conosciamo da molto tempo, ho lavorato con lui per La Gabbianella e il Gatto. Non ricordo di preciso quanti anni fa...
La Gabbianella... dovrebbe essere del 1998.
Quindi 26 anni fa. Enzo ha iniziato a parlarmi di Mary e lo spirito di mezzanotte nel 2014, mentre ero al lavoro con Kate Bush per l’album Before the Dawn. Al tempo Enzo stava lavorando sulla sceneggiatura del film ad Hammersmith, non troppo lontano da dove vivo. I film d’animazione richiedono un tempo di gestazione lunghissimo, non solo per quanto riguarda le questioni tecniche dietro la realizzazione pratica del disegno, ma anche per il tipo di ricerca dei fondi necessari al finanziare il progetto. So bene che Enzo spende molto tempo per cercare di far quadrare ogni aspetto necessario all’ottenere il budget opportuno. Una volta fatto questo, passa alla fase di gestazione vera e propria che, però, per Mary e lo spirito di mezzanotte è anche coincisa con l’avvento della pandemia e del lockdown che ne è conseguito.
Cosa che ha gravato notevolmente su un processo già molto articolato.
Senza dubbio. Inoltre Enzo è molto meticoloso nel pianificare le sue sceneggiature e nel dare una struttura al film che ha in mente. Questo può richiedere del tempo, così come delle modifiche in corso d’opera. Nel momento in cui ho dovuto lavorare sull’animatic - che è uno storyboard animato al quale viene aggiunta una traccia audio temporanea - avevo a disposizione una sequenza di disegni molto grezzi, e spesso avevo soltanto un’idea di quale tipo di personaggio avrebbe poi preso vita. La cosa importante, però, è che già con l’animatic potevo far fede a delle voci molto importanti, già pronte per dare struttura al film.
Ed il rapporto con D’Alò come ha determinato lo svolgimento dei lavori da quel momento in poi?
So molto bene che Enzo dà vita ad una sorta di mappa generale nella quale si ritrovano tutti gli elementi che compongono il suo progetto. Avere un continuo confronto con lui, che è anche un gran conoscitore di musica, mi ha aiutato molto a definire le mie linee guida. Nelle prime fasi di scrittura e di registrazione non si può mai pensare di stabilire qualcosa che vada ad aderire perfettamente alla consequenzialità dei fotogrammi che si ritrova nella versione finale del film, ma oggi la tecnologia consente di gestire molto agilmente il taglio o l’aggiunta di alcuni frame, anche in virtù della colonna sonora.
Per vie generali quali sono state le fasi di gestazione della colonna sonora?
Non molto diverse da quelle richieste dalla realizzazione di un album. Inizialmente ho buttato giù delle idee che mi sono servite come contenitore sonoro generale. Devo dire, però, che quando si tratta di un film le bozze non possono essere troppo grezze, altrimenti si rischia di non poterle mai utilizzare. Il passo successivo allo sketching iniziale è stato quello di ricercare dei musicisti da assumere per il lavoro. E nel caso di Mary e lo spirito di mezzanotte ho guardato soprattutto al portare nel progetto una quota di musicisti irlandesi, fondamentali per l’ambientazione del film.
Pensando alla tua carriera ed al tuo mondo musicale, non era certo scontato aspettarsi una colonna sonora dal piglio folk irlandese.
Non è esattamente nel mio dna! [ride] Ho un po’ di scozzese nel mio sangue, ma non di irlandese, questo è certo.
La musica tradizionale irlandese, però, ha dei connotati molto forti. Si tratta di un repertorio dalle radici culturali molto profonde. Come ti sei rapportato, da compositore, a quel piano creativo?
Anzitutto ascoltando quanto più materiale possibile. Ho confessato anche a Roddy Doyle, autore del romanzo da cui il film è tratto, che ad un certo punto della lavorazione ero molto preoccupato di come quel tipo di “sapore” irlandese sarebbe stato percepito. Avevo paura che non venisse recepito come “autenticamente irlandese”. Roddy mi ha risposto dicendo di non aver mai sentito le parole “autenticamente” e “irlandese” nella stessa frase. [ride] È stato un momento molto importante nella creazione della musica, perché mi ha sbloccato in maniera definitiva.
Correggici se sbagliamo, ma hai scritto anche i testi dei brani, non è vero?
Sì, esattamente. Alcuni testi sono stati scritti anche da Roddy Doyle stesso, mentre altri sono completamente opera mia. È molto bello poter parlare con un autore come Roddy, perché anche in appunti e consigli sceglie ogni parola con una precisione chirurgica... Leggerlo, ed ascoltarlo, è un piacere.
Hai detto che il lavoro di Enzo D’Alò è un processo che si basa su grande precisione. Parlando invece della tua modalità compositivo-creativa, credi di poter affermare lo stesso?
Non saprei. In un certo senso mi piace molto lavorare su progetti con una struttura solida e ben definita. Mi piace avere la giusta dose di informazioni riguardo a suoni e dettagli da utilizzare. Ricordo che quando lavoravo a La Gabbianella e il gatto Enzo mi disse che in alcuni momenti la musica doveva riflettere il film, mentre in altri doveva dirigerlo. È un concetto che mi permette di esprimere bene il mio approccio a questo lavoro. Una parte di esso è strutturata su indicazioni già date per consolidate, mentre un’altra, semplicemente, “accade” e diventa un traino per la componente visiva.
Il lavoro su una colonna sonora è spesso legato anche all’utilizzo ripetuto di materiale musicale che va ad identificare scene, personaggi, situazioni o emozioni. Hai sviluppato un tuo modo per avere sotto controllo il materiale musicale che ricorre in fase di composizione?
Non ho mai steso una mia tabella dei temi usati per i personaggi, o per determinate sequenze, ma lavorare così a lungo ad un progetto, permette di metabolizzare tutti i pezzi del puzzle in maniera quasi maniacale. A distanza di tempo è probabile che serva andare a riordinare le idee per ricordare tutti gli elementi in gioco, ma mentre si lavora al film è difficile non avere tutto sufficientemente chiaro in mente.
David, il tuo lavoro come compositore viene dopo una vita spesa a suonare la chitarra. Orchestrare e dirigere altri strumenti, non è esattamente come...
Attaccare il jack e strimpellare qualche accordo?
Esatto.
Lo penso anche io! [ride] È tutto un altro mondo. In questa colonna sonora ci sono delle texture di chitarra che fanno da supporto a molti dei brani, ma sono consapevole del fatto che non si tratta di un lavoro prettamente chitarristico. Scrivere per altri strumenti è talvolta qualcosa di intricato, ma è molto interessante.
Dopo anni di lavoro, credi che scrivere musica per film abbia cambiato il modo in cui approcci la chitarra?
Probabilmente ha cambiato il lavoro che faccio nella mia mente. Quello che accade con la chitarra è, solitamente, lavorare su una sola traccia... O meglio, su una sola linea. Quando si scrive per più strumenti bisogna sempre considerare il modo in cui questi si intrecciano. Anche quando registro un album dedico sempre molta attenzione al modo in cui gli elementi cooperano, ed è qualcosa che credo di aver fatto durante tutta la mia carriera. Lavorare sulle colonne sonore, però, mi ha obbligato a espandere la mia concezione musicale, legandola ad un’idea di interazione più profonda.
Composizione e improvvisazione sono entrambe azioni percorribili sia per addizione (sommando più livelli sonori), sia per sottrazione (dando più attenzione alle note non suonate). Qual è oggi il tuo modo di affrontare questi aspetti, sia durante il lavoro per un film, sia durante ciò che fai con altri artisti, come ad esempio Peter Gabriel?
Credo che sia sempre un mix di entrambe le azioni. Ci sono momenti in cui aggiungere livelli sonori è fondamentale alla buona riuscita finale, ed altri nei quali è molto importante capire come non intromettersi, e lasciare spazio a quello che serve veramente.
Negli anni è diventato più facile decidere cosa è realmente valido di ciò che suoni, o scrivi, con la chitarra?
Probabilmente sì, e penso che si tratti semplicemente del fatto che invecchiare aiuta a capire dove concentrare le proprie forze. Quando si è più giovani si vuole sempre provare una versione diversa, oppure rifare una take cercando di migliorarla. Con il passare degli anni, invece, ci si rende conto che è più facile riconoscere ciò che non è valido, e da lì provare a muoversi in altre direzioni.
Hai speso più di quarant’anni della tua carriera con Peter Gabriel. Hai suonato per Paul McCartney, per i Talk Talk, per Kate Bush... Come si rapporta il tuo lavoro per il film a quello fatto in studio di registrazione in ambito rock e pop? Credi che le colonne sonore ti permettano di stare più “avanti” nel mix generale degli elementi?
In un certo senso. Forse il lavoro per i film mi ha aiutato a diversificare la mia creatività, e devo dire che mi piace molto questo aspetto della mia carriera.
Sembra essere molto calzante con la tua personalità.
Grazie, è un bel complimento. Lo accetto felicemente.
David, sei qui per altre ragioni, ma concediamoci qualche parola riguardo ad argomenti più chitarristici.
Molto volentieri.
Parlando del più e del meno prima dell’intervista, ci hai detto che di recente sei passato ad un sistema digitale per quanto riguarda tutto ciò che fai dal vivo, soprattutto con Peter Gabriel. Al di là dell’aspetto live, quanto è cambiato il tuo setup negli anni?
È cambiato per gli show dal vivo, ma in studio di registrazione è rimasto tutto molto simile nel corso del tempo.
Anche per quanto riguarda quello che usi per lavorare ad una colonna sonora?
Sì. È sempre lo stesso mix di pedali scelti per l’occasione, e lo stesso parco-chitarre che uso da qualche tempo.
In studio, quindi, sei rimasto sempre fedele ad un setup analogico.
Esatto, ed il motivo, oltre a quello legato alle performance sonore, è soprattutto legato al fatto che non è facile programmare una workstation come la Line6 Helix che ho usato in tour con Peter Gabriel. O perlomeno, non è abbastanza facile da annullare quella curva di apprendimento necessaria per arrivare a gestire tutte le funzioni. Pensandoci bene è molto più facile capire come creare un suono quando si parte da una base fatta da chitarra, pedali, ed amplificatore. Sicuramente lo è per me. [ride]
E questo significa amplificatori valvolari?
Oh sì, sempre. [ride] In studio sono imprescindibili. Da diversi anni uso una coppia di combo Rivera Clubster Royale. Mentre dal vivo i due Rivera mi servono soltanto come monitor, perché tutti i suoni sono programmati sulla Helix, simulazioni di amplificatori comprese. È una questione di comodità generale.
Considerati gli incredibili passi compiuti dalla tecnologia digitale, cos’è che ti tiene ancorato al mondo analogico, e valvolare, in studio di registrazione?
Un po’ è il fatto che in studio posso permettermelo, non ho bisogno di quella flessibilità e comodità che è molto più utile su un palco... Ma penso che le qualità armoniche di un amplificatore valvolare siano ancora un buon motivo per decidere di usarli. Detto ciò, posso dire di essere soddisfatto di quello che ho fatto con il sistema Helix per il tour con Peter. Il risultato finale era qualcosa di molto convincente, e la comodità di avere tutto alla portata di un’unica pedalboard è sicuramente innegabile.
David, è stato un grandissimo piacere aver potuto scambiare qualche parola con te. Grazie dell’opportunità e del tempo che ci hai concesso.
Ve ne sono grato. Il piacere è mio.
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Tuscia Film Fest 2024
L’incontro con David Rhodes e l’intervista riportata in queste pagine si sono svolti all’interno della rassegna Tuscia Film Fest. Giunto ormai alla sua 21° edizione, il festival si tiene con cadenza annuale entro le mura storiche di Viterbo con una folta lista di appuntamenti e ospiti. Quest’anno fra i protagonisti si sono avvicendati David Rhodes, Caterina Guzzanti, Neri Marcorè, Laura Morante, Enzo D’Alò, Michele Riondino, Romana Maggiora Vergano, Valerio Aprea e Stefano Fresi. In occasione dell’edizione 2024 David Rhodes ha affiancato il regista Enzo D’Alò, con il quale ha collaborato per la realizzazione della pellicola Mary e lo spirito di mezzanotte. Rhodes è stato insignito del premio Mestieri Del Cinema.
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Mary e lo spirito di mezzanotte
Regia di Enzo D’Alò
Musiche di David Rhodes
Presentato alla Berlinale 2023, Mary e lo spirito di mezzanotte di Enzo D’Alò prende a prestito A Greyhound of a Girl di Roddy Doyle e lo espande in una pellicola d’animazione dai tratti morbidi e ricchi di dettagli. La storia fa leva sulla necessità sognante dell’animo umano, ma soprattutto sull’ineluttabile capacità della vita di mettere alla prova anche la volontà più forte. La giovanissima protagonista, Mary, è spinta dalla nonna Emer a perseguire il suo sogno di diventare una chef, anche se questo significa affrontare ogni tipo di giudizio.
Ciò che si dispiega nella pellicola è un percorso attraverso alcuni dei passaggi più importanti della vita. Mary non solo tiene testa alle difficoltà poste dal farsi largo nel mondo, ma si scontra anche con il doloroso tema dell’ultimo saluto ad una persona cara. La trama, così come richiesto a qualsiasi storia legata alla cultura irlandese, non si dimentica di chiamare in causa il fantasmagorico, ma, ancor più, tutto ciò che ha a che fare col magico. Smentendo l’apparente leggerezza trasmessa da disegni dai modi pacati, Mary... scava su più livelli nel rapporto che intercorre fra ciò che è terreno e quello che gli dà seguito. L’aspetto più bello di questa introspezione è senza dubbio il suo svolgersi con una semplicità narrativa che non ha nulla a che vedere con la facilità.
Il cielo d’Irlanda ti annega di verde e ti copre di blu, e Enzo D’Alò lo sa molto bene. Seguendo la ricetta di Roddy Doyle, l’ambientazione irlandese della pellicola non svolge soltanto un ruolo di contorno, ma caratterizza, espleta, e alimenta ogni sequenza al punto da divenire un personaggio aggiuntivo. Per l’occasione David Rhodes, compositore tornato a lavorare con D’Alò dopo l’esperienza de La Gabbianella e il gatto, si è cimentato in un coraggioso tuffo nel mare magnum del folklore irlandese, per poi emergerne con una texture sonora molto intraprendente. Le musiche ed i testi di Rhodes (aiutato dallo stesso Roddy Doyle per le parole di alcuni brani) brillano proprio per il fatto di non volersi attenere in maniera filologica a quanto la tradizione del quadrifoglio potrebbe imporre. Nella musica, ma anche nei dialoghi del film, c’è una costante spinta all’uscire dal canonico, per proiettarsi in qualcosa di inedito, spesso di moderno.
Lo stile narrativo di D’Alò (il quale è lui stesso un ottimo conoscitore di musica e del mondo chitarristico) si muove su un frequente inanellarsi di situazioni in grado di far brillare gli occhi dei protagonisti, così come quelli dello spettatore. Lo stesso si può dire di Rhodes, che ha saputo allocare l’esigenza irlandese del progetto soltanto negli elementi più eminenti, disegnando poi delle trame sonore che non si vergognano mai (giustamente) di spostarsi su un piano più dichiaratamente pop.
Con Mary e lo spirito di mezzanotte, D’Alò dà vita ad una narrazione che rimbalza continuamente dal possibile all’impensabile: le rivelazioni più significative della drammaturgia nascono proprio lì dove l’impossibile si veste di quotidiano. In quest’ottica, il lavoro di Rhodes contribuisce in maniera corposa a creare uno storytelling delicato, quasi vellutato, e sempre in bilico fra il descrittivismo sonoro e l’introduzione a paesaggi uditivi più leggiadri ma carichi di significanti.
Mary e lo spirito di mezzanotte vive in bilico sulla linea di separazione che divide sogno e comprensione, seppur le due dimensioni si dimostrino più intrecciate di quanto si creda. Mary e lo spirito di mezzanotte si esprime su quel piano dove il plausibile si mescola allo straordinario.
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