Black Light / White Noise nelle parole di Richie Kotzen

intervista
Nell'atmosfera carica di storia e creatività del The House di Los Angeles, Adrian Smith e Richie Kotzen hanno forgiato dieci brani che promettono di affascinare tanto gli appassionati del classic rock, quanto gli amanti delle sonorità più contemporanee. Guidati dall'esperta mano di Jay Ruston al mixaggio, ogni traccia di Black Light/White Noise (BMG Records) riflette la profondità artistica di due musicisti che, come pochi, sanno raccontare il mondo con le loro chitarre e voci.
Il singolo apripista, White Noise, è una vibrante esplosione sonora che affronta con acuta lucidità il tema dei social media e della loro presenza invasiva nelle nostre vite quotidiane. Nato da un riff firmato Adrian Smith e arricchito dalla sensibilità melodica di Richie Kotzen, il brano rappresenta perfettamente lo spirito dinamico e provocatorio dell'intero disco.
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presenza di Julia Lage, il nuovo album attraversa territori eterogenei, tra accenni soul, sfumature blues e complesse strutture ritmiche che evocano il glorioso passato di band come Cream o Thin Lizzy. Ma ciò che più colpisce è la naturalezza con cui Smith e Kotzen si alternano al microfono e alle chitarre, dando vita a una conversazione musicale intima e coinvolgente, che sembra destinata a crescere e a stupire ancora.
Richie Kotzen ci ha raccontato i dietro le quinte della nascita di Black Light/White Noise.
Ciao Richie siamo contenti di parlare di nuovo con te. L’ultima volta che abbiamo chiacchierato è stato in effetti per il primo e omonimo album "Smith & Kotzen", uscito nel 2021: ora state pubblicando il nuovo "Black Light / White White Noise", come è nato?
In effetti è passato un po’ di tempo ed è stato bello rimetterci all’opera per un secondo album, per quel processo fluido e naturale che avevamo sperimentato con il primo album del 2021. Io e Adrian ci completiamo: l’idea a cui non pensa uno, la pensa l’altro e il risultato finale soddisfa entrambi. Ti dirò che per me è un onore, e un privilegio, poter portare avanti questo progetto.
E’ nato più velocemente grazie al per così dire rodaggio del precedente? Oppure, proprio l’esperienza precedente vi ha portato a una ancora maggiore attenzione su tutti i fronti?
Ti dirò, l’album è nato in maniera naturale come il primo album: abbiamo confrontato idee e input e ci siamo messi a svilupparli passo dopo passo, arrivando a un risultato finale che ha soddisfatto entrambi.
Concentriamoci sul titolo, Black Light / White White Noise, che pare quasi celare un messaggio: è così?
Non necessariamente, in realtà. Il brano White Noise [rumore bianco] rimanda al caos di informazioni e distrazioni che troviamo là fuori, nella società di oggi. Passiamo un sacco di tempo attaccati allo smartphone e al flusso continuo di notizie di cui spesso non ne conosciamo la veridicità ma che comunque possono essere fuorvianti per ciascuno di noi. Il brano Black Light aggiunge ulteriori riflessioni e una parte del suo testo recita “sotto una luce nera [black light] vedo i tuoi veri colori, sai nascondere bene la verità...” Quando abbiamo messo a punto tutti i brani del disco, i titoli Black Light e White Noise ci sono balzati all’occhio e, considerando le nostre riflessioni riguardo al mondo di oggi nel bene e nel male, abbiamo deciso di unirli per dare il titolo all’album stesso.
A proposito del mondo di oggi, la musica arriva da ogni parte a differenza di quanto accadeva a suo tempo, e l’intento è di rendersi nota a livello globale: è così anche per te?
Oggi abbiamo molte più informazioni e opzioni rispetto al passato. Un tempo, per far ascoltare la tua musica alle persone, avevi quasi sempre bisogno di un contratto con un’etichetta discografica: ascoltavano il tuo materiale e se piaceva e pensavano di poter guadagnare ci puntavano sopra. Le cose ruotavano attorno al denaro, pur se non è che siano cambiate del tutto, ma all’epoca le etichette fungevamo da “guardiani del cancello”. Adesso è diverso perché tutti possono fare musica e personalmente la trovo una cosa positiva: mi piace l’idea che chiunque abbia un po’ di creatività abbia i mezzi per esprimerla e metterla in giro. L’unico interrogativo, secondo me, è come riuscire a far sapere a un gran numero di persone che quella musica c’è ed esiste. Se io dovessi partire da zero, non saprei bene come muovermi, ma non ho la necessità di scoprirlo... il che per me è fantastico.
Pensi che la presenza di tanti giovani musicisti davvero bravi che si esibiscono su Instagram o TikTok, contribuisca al miglioramento generale dal punto di vista della tecnica sullo strumento? Non saprei dire se la renda migliore in assoluto. È semplicemente la situazione attuale. Non mi piace la frase “le cose stanno così”, ma credo che in questo caso sia davvero azzeccata. Se uno si riprende mentre suona sul web e tu vedi che suona bene, allora quello è il valore immediato della performance; la guardi, magari pensi “wow, impressionante” e poi passi oltre. È tutto qui. Non è un aspetto negativo, ma se si parla di andare a vedere la band preferita che suona sul palco, di percepire la complicità collettiva, di ascoltare e cantare tutti i brani che hai nel cuore, è tutta un’altra esperienza. E quella dimensione continua ad esistere. Il punto è che oggi si sono aggiunti mezzi che prima non c’erano e che rispondono a certe modalità: le segui se ti interessano o, viceversa, le puoi ignorare. Io non attribuisco a quei mezzi un valore assoluto maggiore, semplicemente ritengo che ciascuno di noi possa decidere quel che preferisce.
Ascoltando il disco, Black Light / White White Noise , si può assaporare la presenza di parecchie melodie armonizzate: è stato un vostro obiettivo? Nessuna pianificazione in tal senso; non ci siamo mai detti “facciamo più armonizzazioni” o “inseriamo più passaggi di questo tipo”. Il disco è frutto di un processo molto organico: propongo un’idea, proviamo a svilupparla fino a che diventa un brano e quando funziona, semplicemente decidiamo che finirà nella tracklist. Le due chitarre che armonizzano le trovi più spesso in una band, soprattutto una rock band, mentre io e Adrian siamo due chitarristi uniti in un progetto: tuttavia, lui ha grande esperienza al riguardo e ciò significa avere accanto il musicista perfetto per esplorare quella direzione. Riguardo alla voce, armonizzo spesso delle parti, ma in quanto alla chitarra è tutta un’altra storia ed è Adrian a mettere la sua esperienza.
In effetti, hai avuto modo di dire di non aver mai suonato in una situazione a due chitarre prima del progetto con Adrian: com’è, considerando oltretutto il tuo doppio ruolo di chitarrista e cantante? Interessante! Sono abituato a suonare in un power trio, chitarra, basso e batteria, con me al centro, e questa con Adrian è un’esperienza diversa, un’opportunità. La vedo come un plus, qualcosa che mi offre uno stacco dalla mia zona di conforto, ed è piacevole. Detto ciò, continua a piacermi l’idea del power trio, ma avere la possibilità di condividere la scena con Adrian, che tra l’altro è stato uno dei miei riferimenti fin da quando ero ragazzino, è surreale. Talvolta, guardando la copertina del disco con i nostri nomi insieme mi domando se stia succedendo davvero. E se ci penso troppo, mi gira la testa!
Siete anche diventati ottimi amici: anche questo ti pare surreale, considerando che sei un fan di Adrian sin da quando eri un ragazzo?
Assolutamente sì. Ci conosciamo bene, sia come persone che come musicisti. So quel che può coinvolgere davvero Adrian e quel che non rientra nel suo mood e la cosa funziona anche al contrario. È una grossa risorsa perché ci lascia concentrare appieno su certe cose, evitando di perdere tempo a sperimentare cose che non verrebbero fuori in maniera naturale.
Quindi le dieci tracce del disco sono frutto del vostro lavoro in piena sintonia? Tutto 50 e 50. Abbiamo proprio voluto impostarlo così, perché se ci sediamo insieme in studio, lavoriamo a un brano e alla fine finisce sul disco, significa che tutto è frutto dello sforzo di entrambi. Certo, può essere che un brano abbia un’impronta più à-la Adrian” o, al contrario, più mia, ma alla fine si bilancia tutto in modo naturale. Oltretutto, siamo solo in due e probabilmente, se fossimo più persone il discorso sarebbe diverso.
Parliamo di Heavy Weather, uno dei brani che svettano in modo particolare nella tracklist? Heavy Weather è nato da una mia idea. Avevo il giro di accordi per strofa e ritornello e anche la melodia vocale, ma non un testo. Ricordo di averlo fatto ascoltare ad Adrian cantando sillabe a caso, quando a un certo punto mi ha detto: “sembra che tu abbia detto Heavy Weather.” In realtà non era così, ma mi è piaciuto subito. Quindi, lui ha sviluppato il concetto di heavy weather nel senso del termine ed abbiamo costruito il testo adeguato.
Anche Blindsided e Life Unchained attirano parecchio: qualche aneddoto riguardo a come sono stati concepiti? Life Unchained è un brano che viene dal riff iniziale di Adrian. In studio abbiamo impostato una traccia-guida di batteria e lui ha registrato il riff. Al contempo ho pensato al chorus perché staccasse di netto quel riff piuttosto dritto e rock: abbiamo unito le due parti ed il brano è venuto fuori. Anche Blindsided è nato da un riff di Adrian e di nuovo mi è venuto spontaneo un ritornello capace di amalgamarsi con naturalezza.
Muddy Water è il brano di apertura: un ottimo esempio di come le vostre due chitarre sanno lavorare insieme senza pestarsi i piedi. Sei d’accordo? È un pezzo che avevo già praticamente finito. Adrian, però, ha avuto l’idea di aggiungere quella intro con le due chitarre armonizzate e, una volta registrato, ci è parso chiaro che sarebbe stata la traccia d’inizio della tracklist.
La produzione del disco è tua e di Adrian, mentre il mixing lo avete affidato a Jay Ruston: avevate in mente il corpo del sound generale?
In sostanza, ho fatto io i mix di base e abbiamo letteralmente detto a Jay: “fai che suoni così, ma meglio.” Come sai, ci sono alcuni processi molto lunghi e complessi per il mixaggio di un disco, ma per Jay è pane per i suoi denti; ha una sensibilità spiccata e ho già lavorato con lui in passato per i mix dei Winery Dogs: quindi è stato naturale passargli il testimone. Non servono discussioni astratte con Jay: lui ascolta i brani, capisce dove voglio arrivare e dà la spinta finale.
Suoni e canti da tanto tempo, sei un musicista molto esperto. Com’è cambiato il tuo modo di esercitarti rispetto a quando eri più giovane? Oggi mi esercito in modo diverso. All’inizio passavo davvero tante ore semplicemente a suonare senza un iter preciso: chitarra in mano e via finché ne avevo voglia. Oggi invece mi capita di far andare le dita mentre guardo magari la televisione. In quanto a praticare davvero, lo faccio in funzione di uno show o di un tour: a quel punto vado a rivedere nel dettaglio quel che ho suonato e cantato, ricercando l’interpretazione che meglio si addice al palco.
In quanto alla tecnica, tutti ben conoscono il tuo livello di preparazione: il fatto di integrare il tuo virtuosismo alla musica che suoni è frutto di una scelta precisa fatta a suo tempo? C’è stato un punto in cui hai dovuto decidere se privilegiare il lato shred, oppure se concentrarti sulla composizione? Devo dire che la parola shred non mi ha mai entusiasmato. Spesso, qualcuno l’ha utilizzata per semplificare o ridurre un discorso molto più ampio, come a voler etichettare la velocità esecutiva sullo strumento senza considerare la profondità dell’espressione musicale. Il mio obiettivo primario è sempre stato creare musica, e attorno a questo ruota tutto il resto. Se la mia ispirazione mi porta a suonare tante note per me è ok, ma se decido di non farlo, è ok lo stesso. Uno dei miei brani più ascoltati non contiene nemmeno un assolo di chitarra, tanto per dire. Già da ragazzo, quando ho iniziato a pubblicare i primi dischi, sentivo che la questione shred era limitante: mi ero reso conto che nella mia musica c’era molto di più della tecnica in qualche passaggio veloce. A un certo punto, ho volutamente puntato sul cantato e sul songwriting, con la chitarra presente e non dominante, per poi riprendere il mio playing e svilupparlo con naturalezza. Oggi non penso affatto in termini di shred: mi focalizzo sulla composizione e su quel che serve al brano per comunicare l’idea che ho in testa. Tutto qui. Dopotutto, perché impariamo a suonare? Nel mio caso, lo faccio per creare musica, per dare sfogo alla creatività ed esprimere me stesso. Alcuni vedono qualcuno su Instagram che suona a livelli pazzeschi e ne è infastidito: “non so fare quelle cose, quindi le denigro.” Questo atteggiamento esiste in ogni ambito, non solo nella chitarra: è nella natura umana vedere qualcuno che fa cose che tu non riesci a fare e sentirti inferiore. Per mio conto, una cosa che non so fare mi ispira: magari non cerco di riprodurla alla lettera, ma mi stimola ad esplorare. Io dico che l’importante è provare ispirazione, non frustrazione.
Lo stesso principio vale anche per il parco strumenti? In fondo noi chitarristi amiamo il cosiddetto gear e spesso ci ritroviamo con più roba di quanta ne occorrerebbe davvero… A mio parere, il gear è soprattutto una distrazione. Da un lato è importante avere strumenti di qualità: una chitarra che risponda bene ed un amplificatore che ti ispiri quando suoni. Ma oltre a questo aspetto, ritengo che si rischi di perdere tempo e concentrazione. Credo che molti ne parlino anche perché non sanno bene cos’altro dire o come progredire musicalmente: per quel che mi riguarda, ho tutto ciò che mi serve per comporre e registrare la musica. Se mi serve un suono specifico che non ho, allora vado a cercarlo: se qualcuno può prestarmi un certo modello o se posso comprarlo a un prezzo accettabile, lo faccio. Ma non mi interessa discutere per ore sulle peculiarità o sull’anno di produzione di uno strumento: se suona bene, per me è sufficiente. Allo stesso modo, certi nuovi dispositivi hanno un senso ben preciso: per esempio, se devi muoverti velocemente da un suono all’altro in un live, essi sono pratici e utili. Io non mi faccio ossessionare dall’idea di possedere tutto. Anche in studio uso i preamplificatori che preferisco, soprattutto Neve, e non sento il bisogno di avventurarmi alla ricerca di una alternativa sul mercato. Sicuramente c’è qualcosa di nuovo e validissimo, ma di sicuro non cambierà il tipo di brani e di testi che scrivo, quindi non me ne preoccupo più di tanto.
Ci sono possibilità di vederti presto in Italia, magari con Adrian o da solo? Stiamo valutando le date proprio in questo periodo e mi piacerebbe molto suonare anche nel vostro Paese. Ora si tratta di sincronizzare i nostri rispettivi impegni ma è certo che suonare sul palco per me è motivo di grande soddisfazione. Grazie per il tuo tempo, Richie. È stato un piacere sentirti. A presto! Grazie a voi e ai lettori italiani. Alla prossima.
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