Lo scarlet-doom dei MESSA torna con "The Spin"

intervista
Nel corso dei precedenti album – Belfry (2016), Feast For Water (2018) e Close (2022) – i Messa hanno affinato un linguaggio sonoro che scardina i confini del doom tradizionale, inglobando influenze che spaziano dal blues al jazz e persino al black metal, mantenendo intatto il loro inconfondibile marchio di oscura raffinatezza.
The Spin, in uscita per l’11 aprile 2025 su Metal Blade Records, emerge come un volo a vele spiegate attraverso paesaggi emotivi mutevoli, ricchi di pathos e tensione, tra atmosfere dilatate e sferzate di pura potenza. Le sessioni di composizione e registrazione hanno conferito a ogni nota un’intensità palpabile, frutto di un lavoro maniacale nei dettagli e di un istinto selvaggio che brucia dietro le melodie.
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intervista, Alberto Piccolo, chitarrista e co-fondatore della band, ci ha raccontato i segreti di un album che promette di dare nuove linee guida al sound della band. I Messa si apprestano a imprimere un altro segno indelebile nel panorama estremo italiano, e The Spin sembra destinato ad aprire un nuovo capitolo di una storia che continua ad ammaliare e inquietare al tempo stesso.
MESSA lineup: Alberto Piccolo (chitarra) – Marco Zanin (basso) – Rocco Toaldo (batteria) – Sara Bianchin (voce)
Abbiamo potuto ascoltare The Spin in anteprima e dobbiamo farti i complimenti. Il comunicato di presentazione fa diversi riferimenti a un piglio un po’ anni ‘80, soprattutto legato ai synth, mentre a nostro avviso è un lavoro molto contemporaneo. Alletta anche il modo in cui emerge il tuo tiro blues, che secondo il sottoscritto è proprio una tua caratteristica, mescolandosi agli elementi più heavy. Ho colto bene questo aspetto?
Sì. Ritengo che il disco, pur giovando di certi suoni anni ‘80 (anche perché abbiamo usato strumenti di quell’epoca, tra amplificatori, chitarre, piano e mix in studio), abbia un songwriting moderno. Non abbiamo voluto fare un album filologico anni ‘80, ma semplicemente rivisitare la nostra musica sotto quell’ottica. Gli assoli blues non erano previsti in modo rigido, ma sono emersi come un’eredità degli anni ‘70, quindi qualcosa di molto mio. Sono cresciuto con quelle sonorità e inevitabilmente escono fuori quando suono.
Se non sbagliamo hai anche un progetto blues separato dai Messa, giusto?
Esatto, si tratta del mio progetto Little Albert e lì posso dare sfogo alla mia indole di chitarrista solista senza che nessuno mi fermi. Dico sempre che quel progetto è una scusa per fare assoli! I brani parlano di esperienze di vita, storie d’amore finite male… classiche tematiche blues. Con Little Albert mi sento libero di esplorare pienamente la mia anima blues, e questo fa sì che con i Messa io possa dedicarmi anche ad altro, evitando di dover inserire per forza riferimenti a quel mondo sonoro... anche se, come hai notato, certe sfumature emergono sempre.
In un brano come "Reveal" , c’è una intro blues, addirittura con uno slide che pare venire dal Delta, e che poi sfocia nei blast beat. Bello questo contrasto che rispecchia il vostro sound globale.
Ti ringrazio. In effetti è frutto della nostra natura di band composta da quattro persone molto diverse. Rocco [Toaldo], per esempio, suona anche black metal e questo emerge. Unendo ogni cosa, la somma è proprio questa commistione di blues, heavy e altre influenze. È come se fossimo quattro spigoli di un quadrato e ciò che si sente è il risultato di ciò che abbiamo in comune.
Siete insieme da più di dieci anni: come si è evoluto il vostro lavoro di squadra? È cambiato il modo di comporre e di confrontarvi?
Sì, siamo in giro dal 2014, quindi quasi una decina d’anni. Il rapporto fra di noi si è approfondito, ci conosciamo meglio e sappiamo come interagire senza che le nostre differenze di gusti creino troppe frizioni. Abbiamo sempre messo al primo posto la band e ci siamo impegnati a raggiungere compromessi costruttivi. A livello di scrittura, di solito uno o due di noi propongono un’idea, più o meno articolata, che tutti noi poi elaboriamo insieme in sala prove. I testi e le linee vocali sono in gran parte di Sara [Bianchin] con qualche aggiunta corale. Per questo ultimo disco abbiamo cambiato il modo di registrare: di solito suonavamo in presa diretta invece ora abbiamo tracciato gli strumenti in maniera separata. Abbiamo anche passato un mese in sala prove, tutti i giorni, prendendo spunto dall’idea à-la Beatles di restare chiusi finché non avevamo abbastanza materiale. Alcuni pezzi sono nati molto prima dell’idea del disco, e li abbiamo riadattati perché rientrassero nel mood generale.
La scelta di registrare su tracce separate ha cambiato qualcosa nel tuo approccio alle parti di chitarra?
Sì, molto. In presa diretta la registrazione degli assoli di chitarra avveniva sempre alla fine delle sessioni, quindi, spesso li improvvisavo e sceglievo al volo quello che mi convinceva di più, a meno che non avessi un assolo già pronto e adeguato al contesto. Questa volta ho avuto il tempo di mettere per iscritto ogni singolo assolo. Qualcuno è nato comunque dall’improvvisazione, ma mi sono potuto prendere il lusso di fare più take, assemblare le parti migliori e poi riregistrare quello definitivo. In questo modo gli assoli sono meglio integrati nel brano e quasi parte dell’arrangiamento.
Da un lato, quindi, è un processo positivo per la cura dei dettagli, dall’altro il rischio è di pensarci su troppo e di incappare nel vizioso circolo della perfezione: che ne dici?
Ho fatto 80 e più take di uno stesso assolo, col vicino che mi tirava bottiglie sul tetto! Sì, sono un perfezionista, pur se mi rendo conto che quando hai la possibilità di riregistrare all’infinito, puoi finire ostaggio di te stesso. E’ anche vero però che alla fine scegli la versione definitiva e cerchi di non pensarci più. Un tempo dicevo “se c’è un errore pazienza, fa parte del momento.” Questa volta, avendo avuto tempo, ho voluto puntare al massimo. Certo che poi, a disco finito, capita di pensare “forse era meglio scegliere una take diversa,” ma succede sempre. A un certo punto bisogna decidere e andare avanti.
A questo punto, pensi che in futuro ripeterai la registrazione a tracce separate, oppure senti il desiderio di tornare alla presa diretta per qualche motivo?
Secondo me, per i Messa questo è il modo giusto di registrare, perché ognuno può prendersi il proprio tempo e dare il meglio, senza la pressione dei compagni che ti incalzano. Io sono il primo che a volte mette fretta agli altri, quindi capisco bene questa dinamica. Ritengo che la resa finale ne guadagni. Con i Messa continueremo così. Se dovessi pensare invece a un disco blues o a suonare in un contesto che richiede davvero l’interplay fra i musicisti, allora ritengo che la presa diretta sia molto più sensata. Sono due filosofie che tengo separate a seconda delle situazioni.
Prima accennavi all’utilizzo di strumenti quasi “d’epoca”. Ci sono state limitazioni che hanno generato però sorprese timbriche interessanti? O magari quegli strumenti hanno innescato input e idee?
Domanda interessante. Dico spesso che utilizzare strumenti reali e non plugin, soprattutto strumenti di un certo periodo, introduce limitazioni fisiche che ti spingono a suonare in un modo specifico. Se vuoi davvero ricreare il feeling di un musicista che lavorava con quell’attrezzatura, devi averla in mano. Abbiamo registrato alcune parti con un CP-80 Yamaha ma se usi invece una tastiera che non ha la stessa meccanica, non avrai la stessa sensazione. In quel caso, si tratta di una limitazione utile, poiché ti porta a un suono più credibile.
Viene da pensare che per certi generi di musica il plugin sia quasi imprescindibile, ma forse tutti i musicisti dovrebbero sperimentare con l’analogico per impararne quei risvolti e dinamiche che portano ad impiegare al meglio il digitale. Sei d’accordo?
Sì. Sono cresciuto in un periodo in cui i computer non erano così onnipresenti. Dai miei 8 anni, fino ai 20-22, pensavo che chitarra e amplificatore fossero tutto. Mio zio suonava, mio padre suonava negli anni ‘70 e non c’era il culto degli effetti. Ho imparato a cavarmela con una chitarra, un volume e qualche controllo di tono: se ho bisogno di più volume per l’assolo, giro la manopola. Il mondo digitale ha meno limitazioni, consente cose incredibili, ma trovo che conoscere il mondo analogico (e le sue regole) ti prepari a sfruttare i plugin al meglio. Un esempio lampante è la Arp Odyssey [tastiera analogica messa in commercio nel 1972]: è monofonica, quindi, se vuoi fare un accordo devi registrare più take. Col plugin potresti suonare quell’accordo subito, ma probabilmente avresti un suono diverso perché ti mancherebbe l’esperienza di conoscere lo strumento reale.
Tornando al disco, ci parli di qualche brano in particolare, per esempio l’incisivo "The Dress". Com’è nato?
The Dress è nato dal riff principale. È stata un’idea basata su un esperimento ispirato a un brano degli Area, in cui c’era un particolare gioco di entrate a canone tra il canale destro e il sinistro. Volevo provare a fare qualcosa del genere, così ho creato un riff da ‘sdoppiare’ e l’ho portato in sala prove. Da lì l’abbiamo elaborato insieme. Il testo l’ha scritto Sara, ed è uno dei più autobiografici, molto più diretto del solito. È un brano con molta sofferenza.
E invece "Thicker Blood" , il brano più lungo che chiude l’album?
Quello è nato da un’idea di Marco [Zanin, bassista dei Messa] che ha portato in sala prove gran parte della struttura, peraltro parecchio vicina ai nostri standard del passato: strofe lente e refrain pesanti, con un tocco doom. Riprende anche un po’ l’atmosfera arabeggiante del disco precedente. In sostanza, è un brano dall’impronta Messa più tradizionale, ma arricchito dai riferimenti nuovi che ci stiamo portando dietro.
Parliamo un po’ di strumentazione. Vediamo una paletta in stile Danelectro…
Sì, ho una chitarra particolare lì dietro, ma per il disco ho usato soprattutto una Fender Telecaster dei primi anni ‘90 che mi ha prestato mio zio. Lui mi ha anche prestato un Marshall Jubilee del 1985. Due giorni prima di entrare in studio me ne aveva parlato per caso e si è rivelato l’ampli perfetto per le ritmiche. Insieme alla Gibson SG (una Custom 2011 con vibrola), la Tele è stata la base del mio suono. Ho usato una Gibson Les Paul Deluxe dell’81 per gli assoli, collegata a un Vox AC30 con i coni Alnico Blue, che ho registrato a casa dei miei a volume decisamente alto! La SG invece la uso in ogni disco, non mi sono mai separato dai tempi in cui ho finito le superiori.
E gli effetti? Ti sei tenuto leggero anche qui?
Abbiamo usato il chorus, un po’ per tutti gli strumenti: voce, piano, basso, chitarra. Per i puliti, invece, ho sfruttato un Roland Jazz Chorus. Quindi sì, chorus a volontà! Per il resto nulla di eccessivo, tutto piuttosto tarato per il suono che avevamo in mente.
A proposito del Roland Jazz Chorus: 120 o il più piccolo?
JC120, pur se l’ho tenuto a volume 2, pulitissimo. Secondo me è un amplificatore che tornerà a essere riscoperto, perché ai suoi tempi, essendo privo di valvole, era stato un po’ sottovalutato. Ora credo che verrà rivalutato, visto che oltretutto il suo chorus, è uno dei più belli in circolazione. Inoltre, ha un bel pulito e, se spinto a dovere, ti può offrire anche un distorto interessante. L’ho usato spesso per i suoni puliti, insieme a una Telecaster e a una 12 corde Danelectro, la stessa che vedi lì, con quella paletta particolare, e che ho usato tantissimo nel disco precedente.
Una cosa che ho imparato, e che prima un po’ snobbavo, è che se hai un ampli con un preamp che satura molto (tipo un Marshall JCM800), inserire chorus, delay o riverbero prima dello stesso preamp non sempre dà il risultato che vuoi. Se vuoi un sound estremamente distorto, magari va tutto bene, ma se vuoi un suono intelligibile devi valutare il send/return della testata. Per questo le ritmiche distorte le abbiamo fatte con il chorus in send/return, cosa per me abbastanza nuova: io sono abituato a roba anni ‘70, quindi solitamente metto tutto in ingresso. Ma ho scoperto il loop effetti e credo che nel 2025 non si possa dire che sia una novità assoluta… però lo è stata per me!
Beh, finché non serve non ci si accorge dell’utilità del send/return. Forse dipende dai suoni che cerchi…
Esattamente. Se vuoi mantenere un certo tipo di “palco sonoro” e hai un preamp molto saturo, mettere il chorus o le modulazioni dopo il preamp cambia tutto. Dal vivo, però, è da capire come gestire questa cosa: nei festival spesso trovi l’amplificatore che c’è sul palco. Se arrivi in aereo, non è detto che tu possa portare la tua testata con il loop. In più, dovresti impostare una pedalboard con un doppio giro di cavi per le modulazioni nel send/return, e non è sempre pratico.
A proposito di live, quali sono i prossimi appuntamenti, in Italia o all’estero?
Il release party italiano è fissato per il 26 aprile 2025 a Venezia (Mestre) e i biglietti sono già in prevendita. Poi saremo fuori dal nostro Paese per alcuni festival, incluso il Roadburn Fest in Olanda, dove suoneremo il nuovo disco per intero... come se qualcuno schiacciasse Play sul cd. Il tour vero e proprio sarà in autunno e ci stiamo lavorando sopra...
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