SUPERSONIC BLUES MACHINE "Voodoo Nation"

di Francesco Sicheri
01 settembre 2022

intervista

Supersonic Blues Machine
Supersonic Blues Machine
Voodoo Nation
Voodoo Nation è duro e potente, il lavoro più potente dei Supesonic Blues Machine sino ad oggi, ma mette comunque in prima linea quell’anima bluesy che caratterizza la band californiana fin dai suoi inizi. I temi trattati questa volta si fanno però un po’ più cupi e guardano dritto negli occhi la quotidianità di un mondo che pare assomigliare un po’ troppo a certa letteratura e filmografia distopica.

Fabrizio Grossi, Kenny Aronoff e Kris Barras (subentrato a Lance Lopez dopo il primo album della band), questa la lineup “fondamentale” dei Supersonic Blues Machine, che si amplia di tanto in tanto per ospitare amici e componenti di quella grande, “rumorosa”, famiglia di artisti che risponde al nome della band.

Josh Smith, Eric Gales, Sonny Landreth, Ana Popovic, Kirk Fletcher, Charlie Starr, Joe Louis Walker e King Solomon Hicks arricchiscono le tracce di Voodoo Nation con i loro contributi, ma anche dietro le ospitate più importanti emerge sempre forte il carattere dei SBM, giunti oramai al terzo giro di boa con questo nuovo lavoro discografico. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Grossi, bassista, autore e mastermind della band californiana.



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Ciao Fabrizio, come stai?
Ciao ragazzi, tutto bene, mi godo le ultime ore di temperature sostenibili, prima che il sole cominci a cuocere Los Angeles [ride]

"Voodoo Nation" è il terzo album in studio dei Supersonic Blues Machine, che tipo di band siete oggi rispetto a quando avete iniziato?
Penso che i Supersonic siano soprattutto una band. Vedete, molte persone ci hanno chiamato “progetto” soprattutto per i molti ospit che si alternano sui nostri album e nei nostri show, ma la verità è che siamo sempre stati una band. Con questo intendo dire che rispetto a chi sfrutta gli ospiti per trasformarli in mosse commerciali, con i Supersonic è diverso. Tutti gli artisti che sono passati dai nostri album, ed anche da Voodoo Nation sono prima di tutto degli amici. Quando con Kenny Aronoff abbiamo pensato di dare vita ai Supersonic, lo abbiamo fatto per dare continuazione a quel progetto iniziato insieme a Steve Lukather, che si chiamava Goodfellas. Steve era troppo impegnato per proseguire con quel progetto, ma io e Kenny volevamo continuare a lavorare insieme... Tutti gli ospiti che hanno partecipato agli album ed ai brani dei Supersonic, sono semplicemente amici con i quali io e Kenny abbiamo lavorato nel corso degli anni. Vi ho raccontato tutto questo per dire che, dopo tre album in studio e molte belle avventure insieme, penso che i Supersonic Blues Machine siano sempre quella bella famiglia che ha iniziato a suonare qualche anno fa, e che ogni tanto si allarga con qualche nuovo amico.

Sul piano prettamente artistico è il secondo album con Kris Barras, che ha una vocalità ed un’impronta chitarristica molto diversa da quella di Lance Lopez, con il quale avete registrato il primo album...
Sì credo che questa sia la prima vera cosa da notare quando si parla dell’evoluzione del nostro sound o del nostro suono. Con Lance, che è un musicista molto noto all’interno del circuito losangelino, ma in generale nel circuito blues, io condividevo un’impronta comune che aveva radici nel mondo funk, blues, rhythm & soul. Il primo album dei Supersonic ha molto di questo nel suo suono e nei suoi brani, Questo è stato determinato dal fatto che malgrado io sia colui che supervisione la band - anche per motivi che derivano dal mio lavoro quotidiano come produttore -, i brani sono sempre stati portati a termine in maniera collettiva. Lance aveva uno stile molto marcato ed è inevitabile che si percepisca in quell’album che abbiamo realizzato insieme. Quando Kris è entrato a far parte della band gli abbiamo subito detto che avrebbe dovuto esprimersi senza provare a mascherare nulla del suo stile. Kris per ovvi motivi ha un piglio più “ british blues” sulla scia di Peter Green, Rory Gallagher, Eric Clapton, Jimmy Page e via dicendo. Fin dal primo giorno abbiamo insistito perché il suo approccio fosse completamente sincero, non volevamo in alcun modo che pensasse di dover ricalcare quanto fatto da Lance Lopez.

Nell’arco di tre album avete messo nero su bianco brani anche molto diversi tra di loro, tutti accomunati da radici blues. Cosa vuol dire suonare blues per te che sei nato in Italia?
Anzitutto mi piace dire che con i Supersonic suoniamo 50 shades of blues , perché ci piace prendere spunto da tutti gli artisti blues della storia, senza però soffermarci su un solo aspetto di questa musica.
Suonare blues per me vuol dire rendere omaggio ad un paese, come gli Stati Uniti, del quale sono orgoglioso. Malgrado gli ultimi anni siano stati veramente difficili, sono orgoglioso di vivere qui e di essere un cittadino americano, ed in particolare un musicista in America. Il motivo è che da quando sono arrivato qui, nel settore musicale non ho mai, e sottolineo mai, avuto esperienze di discriminazione o non mi sono mai sentito denigrato per il fatto di essere un immigrato italiano arrivato negli Stati Uniti per cercare una nuova strada. Suonare blues per me è un tributo alla cultura di questo paese, e soprattutto un tributo a quel senso di cameratismo che c’è tra i musicisti. Detto questo, non mi sognerei mai di definirmi un bluesman, perché quel titolo va a gente come Buddy Guy, come Joe Louis Walker, ed è un titolo che ci si guadagna con esperienze di vita di un certo tipo.

Veniamo a questo nuovo album, quindi, che porta con sé un titolo molto forte, "Voodoo Nation"...
Sì, il titolo è qualcosa di cui sono molto fiero. Se chiedeste a Kenny, probabilmente lui vi direbbe che questo titolo sounds so fucking cool , ed è vero... Ma c’è anche altro dietro a questa scelta.
Anzitutto Voodoo Nation è l’album più duro che abbiamo mai realizzato fino ad ora. Non stiamo rinnegando lo stile più “motivante” che abbiamo sempre usato nel comunicare con la nostra musica, ma il periodo storico che stiamo attraversando chiamava necessariamente per toni un po’ più duri.

E quindi qual è questa "Voodoo Nation?
La Voodoo Nation è quella rappresentata da tutte quelle persone (ed a volte ci rientriamo anche noi) che vivono in un modo molto vicino a quello degli zombie. La società americana di oggi è veramente molto dura nel suo imporsi sulle persone. Spesso in Europa non si percepisce così bene, perché malgrado i problemi di ogni singolo paese, la qualità di vita è molto buona. Negli Stati Uniti invece si percepisce un costante “martellamento”, che passa spesso attraverso la tecnologia e che finisce per costringere ad una vita che è regolata da ritmi incessanti. Considerato che i primi zombie, come quelli che appaiono proprio nella letteratura della Louisiana, erano molto legati alle pratiche voodoo, abbiamo pensato che Voodoo Nation fosse un buon titolo per racchiudere i temi di questo album.

Credi che quello di cui hai appena parlato in merito alla vita della società americana sia applicabile anche al music business, e nello specifico al modo in cui la musica è distribuita e ascoltata?
Risponderò dicendo questo: l’altro giorno parlavo con un amico del fatto che ogni giorno su Spotify vengono pubblicate una media di 45.000 canzoni. Sono ovviamente cifre da leggersi su scala globale, ma sono comunque cifre enormi. Sono sempre stato dell’idea che tutti dovrebbero avere la possibilità di proporre la propria musica, però credo che non sia necessario che tutti finiscano per pubblicarla. Ci deve essere un filtro, ed oggi quel filtro non c’è più. Chiunque può fare un album a casa propria grazie ad un laptop e poco altro, e si tratta di qualcosa di molto interessante per molti aspetti, ma ha portato un gran numero di persone a concentrarsi su aspetti che non hanno a che fare con il saper scrivere musica o saper produrre un album. Qunidi è aumentata l’offerta, in maniera incontrollabile, ma non è aumentata la qualità media. C’è un detto americano che riassume bene quello che penso: just because you can do it, it doesn’t mean you should (solo perché puoi farlo, non vuol dire che dovresti).

C’è stato un tempo in cui le label facevano da filtro per la proposta musicale. Una volta se acquistavi un album della Blue Note sapevi a cosa andavi incontro. Il “sistema” messo in piedi dalle label non era tutto rose e fiori, anzi, però era molto più facile fare una selezione generale, non trovi?
Sono d’accordo, ed inoltre credo che questa “sensazione” di libertà dalle case discografiche sia soltanto un’illusione. Mi spiego. Una volta, malagrado le label avessero grandissimi difetti, c’era una regola fondamentale che non poteva essere aggirata molto facilmente: saper suonare, o saper scrivere, o saper cantare, ad un livello qualitativamente sufficiente era una condizione senza la quale non ci si sarebbe mai potuti sognare di fare musica. Questo non vuol dire che anni fa non uscisse niente di brutto, ma vuol dire che le probabilità di incappare in qualcosa di fatto senza alcuna conoscenza di base, erano molto basse. Io sono una di quelle persone sempre interessate alla tecnologia, e lo capirete bene anche quando parleremo di strumentazione, nel mondo musicale di oggi, però, ha molta più importanza saper sfruttare l’algoritmo di una data piattaforma, e saper creare engagement sui social, piuttosto che chiudersi in camera per otto ore al giorno ed imparare a suonare, a cantare, oppure a scrivere. Non voglio continuare troppo su questo argomento, ma personalmente credo che sarebbe meglio tornare a concentrarsi su un sistema in cui per fare musica, sia consigliabile prima diventare un musicista, un cantante o un autore.

Proprio perché hai toccato l’argomento del lavorare sul proprio strumento, ci vuoi dire un po’ che tipo di bassista ti senti oggi? Come è cambiato il Fabrizio Grossi musicista dai tempi in cui iniziava a fare musica in Italia?
La prima cosa che mi viene in mente è che quando ero più giovane, e questo vuol dire verso la fine degli anni ‘80/inizio ‘90, ho vissuto il mio vero e proprio periodo di ossessione per lo strumento. Quel periodo in cui passi più tempo a suonare che a respirare, per intenderci. Ho passato giornate intere ad imparare dai dischi di Stu Hamm, dai passaggi di Billy Sheehan o di Larry Graham. Da quei momenti in avanti, fino alle prime band importanti con le quali ho iniziato a suonare anche a New York, ero molto concentrato sull’aspetto “funambolico” del playing. La spettacolarità era un aspetto fondamentale per me, a quei tempi. Poi un giorno sono stato invitato da degli amici al Musicians Institute di Hollywood, ed ho potuto assistere ad una performance di Stevie Salas con T.M. Stevens al basso. Credo che Stevie sia uno dei chitarristi più sottovalutati del pianeta, e quel concerto mi ha fatto capire che forse avrei potuto suonare meno note, e pertanto farle “valere” di più. Oggi la mia sfida è suonare meno, e molto, molto più lentamente rispetto a quanto facevo in passato.

Pensi che aver attraversato una fase più “funambolica” in passato oggi ti renda più semplice il suonare meno?
Sì, ma soltanto in parte. Mi rende più facile il processo di selezione delle note ed il modo in cui le suono, perché avendo raggiunto un certo livello tecnico si ha una determinata “confidenza” con il manico dello strumento. Quello che non è così facile è trattenere l’istinto, ma indubbiamente rallentando i tempi e diminuendo la quantità di note il playin ne guadagna in “importanza” del singolo elemento.
Lavorare con Leslie West mi ha fatto capire, ad esempio, che si può suonare ogni nota come fosse l’ultima della tua vita. Billy Gibbons è un ottimo esempio dello stesso tipo di pensiero. La gente spesso si dimentica che non tutti possono suonare tante note e far sì che tutte abbiano il giusto peso come fa Steve Vai, o come fa George Duke.

Fabrizio ci racconti un po’ la tua attuale strumentazione? Con quale setup hai registrato il nuovo album dei Supersonic?
Inizierei dai bassi, perché negli ultimi 5/6 il cambiamento più importante nel mio setup ha riguardato proprio i bassi. In particolare sono diventato un artista della scuderia Ibanez dopo molti anni di utilizzo di strumenti realizzati da Manne. Ho ancora oggi una grandissima relazione con Andrea Ballarin e con il brand Manne, è successo però che con l’età ho sviluppato alcuni problemi alle spalle e alla schiena, e certe tipologie di bassi d’ispirazione vintage hanno solitamente un certo tipo di peso. Con i Supersonic suoniamo spesso show molto lunghi, ed il fattore del peso diventa fondamentale quando devo scegliere quale strumento portare con me. A questo si aggiunge anche il fatto che spesso con la band dobbiamo contare su strumenti di backup forniti da service locali, ed molto più semplice richiedere un backup Ibanez rispetto ad uno strumento boutique.
Nello specifico ho scelto il modello SR2600 di Ibanez, sia della serie Premium, sia della serie Prestige, che sono tra gli strumenti più “perfetti” che io abbia mai provato sul piano della precisione realizzativa.

Per quanto riguarda gli amplfiicatori sei, invece, sempre con Markbass?
Esattamente. Utilizzo amplificatori Markbass da moltissimi anni, e questo perché so che quello che “consegno” all’amplificatore con il mio strumento, è esattamente ciò che ricevo in ritorno. Nello specifico uso una Little Mark Tube 800 con casse 8x10” che Marco De Virgiliis ha personalizzato (solo sul piano estetico, non su quello tecnico) appositamente per me.

Sappiamo anche che sei sempre intento a provare qualche nuovo pedale...
Sì, mi piace sperimentare. In pedaliera ho diversi altri prodotti Markbass, come ad esempio l’Octocompressor, che è uno dei compressori migliori mai prodotti. Uso anche un vecchio Sansamp GT2 del 1995 che ai tempi avevo acquistato per re-amplificare alcune tracce perché prendeva benissimo l’impedenza sbagliata dei segnali di linea in uscita dalle macchine in studio. Il GT2 usato con il basso mi piace perché arricchisce le armoniche in un modo veramente molto piacevole. Spesso utilizzo dei Bass Synth, ma molto più con il mio progetto solista dove sono un po’ più protagonista...
Infine ho altri due pedali dei quali non posso fare a meno, ovvero un octaver di MXR ed un MXR Envelope Filter che mi ha regalato Billy Gibbson, il quale si è anche preso la briga di affinare i settaggi dei trim interni. Ho altri pedali che uso però solo in alcune occasioni, come il Phase 100 oppure il Boss Super Feedbacker Distortion.

Fabrizio, come sempre è stato un piacere sentirti.
Piacere mio, ci vediamo presto dal vivo!


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