DAYTONA "Garder La Flamme"

di Andrea Martini
01 dicembre 2024

intervista

DAYTONA
Erik Heikne
Garder La Flamme
Cuore e mestiere sono le due parole-chiave che forniscono l’accesso ai territori dei Daytona, là dove l’ambiziosa band svedese ha fatto germogliare le dieci tracce che compongono "Garder La Flamme", il loro debutto discografico.

Melodia, armonie vocali, ritmiche rock, groove, assoli di chitarra ed un sound che pone le radici negli Ottanta: tutto, shakerato con arrangiamenti radiofonici e di fluida fruizione. C’è il rock frizzante e dinamico (Town Of Many Faces , Downtown ) fra le tracce del nuovo disco, alternato alle strambate più contagiose (Welcome To The Real World ), ma c’è posto anche per gli inni rock più genuini (Through The Storm ) e per i momenti più delicati e riflessivi, per un vortice di atmosfere capace di catturare sin dal primo ascolto. Riassumendo, con Garder La Flamme i Daytona si fanno largo nell’hard rock AOR più tipico, armati di passione, valentia tecnica e voglia di suonare.

Erik Heikne ci parla dei Daytona, di com’è nato Garder La Flamme , uscito per Escape Music Records, e naturalmente del suo equipment di chitarrista.

I Daytona sono una power band di cinque elementi: ci dici come...

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è nata la formazione?

È nato tutto dal fatto che durante il lockdown ho lavorato parecchio nel mio studio, fino a che mi sono ritrovato con un bel po’ di materiale che mi piaceva parecchio: di tipo diverso rispetto a quello che avevo messo assieme per i Miss Behaviour, con arrangiamenti nello stile hard rock degli anni Ottanta che adoro. Dapprincipio avevo pensato a un mio album da solista, ma subito dopo ho deciso di mettere insieme una nuova band e, quando ho incontrato Fredrick [Werner], ogni tessera del progetto è andata al suo posto: avevamo le stesse idee, amavamo la stessa musica e avevamo persino gli stessi gusti riguardo ad estetica e look. Via via le cose si sono susseguite con naturalezza.

Ok, il rock degli anni Ottanta è il propulsore principale della musica dei Daytona, pur se la band guarda anche al presente, è corretto?
Siamo profondamente influenzati dagli anni Ottanta! All’epoca si trattava di mainstream, mentre oggi si tratta di sottocultura, escludendo pochi generi. E quando qualcosa è mainstream, ossia popolare, si sviluppa velocemente: insomma, è successo parecchio tra il 1985 e il 1990 e le produzioni musicali sono lì a dimostrarlo. Tornando ai Daytona, tutto di quel periodo ci influenza, il tipo di sound, di songwriting, persino il tipo di grafica che si utilizzava allora, pur se innegabilmente cerchiamo di mantenere un piede nel presente.

Quali sono stati i tuoi riferimenti chitarristici di teenager?
All’inizio, ma proprio all’inizio, ascoltavo parecchio Iron Maiden ed Helloween e con le mie prime band suonavamo l’heavy metal. Roland Grapow è stato il mio primo idolo chitarristico ed era stato lo special guest di un album dei Miss Behaviour. A casa, quando ero un ragazzo, mio padre ascoltava il blues ed è così che inconsciamente sono stato influenzato da BB King, Johnny Winter e, naturalmente, da Gary Moore. Man mano che sviluppavo il mio stile e suono, grosse influenze mi arrivavano da Kee Marcello, Dann Huff e Steve Lukather, senza contare Yngwie Malmsteen. Sebbene non suonerò mai come Yngwie, ha avuto un impatto incredibile su di me!

Veniamo a "Garder La Flamme, il nuovo album targato Daytona: anzitutto, da dove viene questo titolo?
È un titolo che genera curiosità: dopo tutto anche tu me lo stai chiedendo, quindi significa che cattura l’attenzione delle persone! [ride] Non parlo francese ma, volendo, lo si potrebbe tradurre come “eterna fiamma” che, in inglese, è una espressione che ha a che fare con i sentimenti. Nel corso degli anni, attraverso ore e ore e un duro lavoro, la passione di suonare è diventata sempre più forte, come un’eterna fiamma, appunto; la stessa che, in generale, attrae ascoltatori nuovi e fans devoti. Beh, abbiamo voluto rendere omaggio a tutto questo e, ora che ci penso, parecchie band ricorrono a titoli francesi: i Foreigner con Agent Provocateur, o i Treat con Coup de Grâce sono i primi che mi vengono in mente.

Dicevi che l’idea dell’album è arrivata quasi per caso, quando ti sei trovato tra le mani un sacco di materiale nato nel tuo home-studio; a quel punto è arrivato Fredrick Werner, con il quale ti sei trovato subito in sintonia: come è proseguita la produzione?
Come dicevo, l’arrivo di Fredrik [Werner] ha definito l’anima di ogni brano, con i suoi testi così profondi, col suo lavoro sulla fonetica e quindi sul sound delle sue linee cantate. Abbiamo quindi contattato Johan [Berlin], gli abbiamo fatto ascoltare qualche traccia e ci siamo messi a lavorare insieme in studio, visto che avevo sì arrangiato il materiale, ma non sono un tastierista. Johan ci ha messo la sua abilità e musicalità e anche le sue tastiere vintage, e tutto è sfociato in variegate texture che ci hanno soddisfatto da subito. Successivamente, Niclas [Lindblom] è intervenuto con i suoi fantastici disegni di basso, mentre Calle [Larsson] dietro i tamburi ci ha aggiunto quella peculiare ‘punta’ del rock più duro e aggressivo. Le nostre identità hanno finito per fondersi, forgiando quell’amalgama che noi amiamo definire Daytona-sound.

L’album snocciola dieci brani ariosi, cantabili e ben stratificati; in generale, la voce dà spazio all’interpretazione, basso e batteria impugnano il timone, tastiere liquide fungono da intro e tappeti, e la tua chitarra fraseggia anche negli assoli. In pratica, ciascuno della band trova il proprio spazio, ma nessuno vuole prevaricare: come avete raggiunto tale equilibrio?
Grazie per queste parole; mi fa piacere capire che abbiamo raggiunto il nostro obiettivo: costruzione di brani e sound al centro del tutto. Quando faccio il mix di un album mi assicuro che ogni strumento sia ascoltabile in maniera chiara e definita, allo scopo di restituire le dinamiche di ciascun brano e l’andamento stesso della tracklist.

A proposito di tracklist, c’è stato un brano che ti ha impegnato in particolar modo?
Non direi, pur se nei brani del disco, così fluidi all’ascolto, succede parecchio in termini di arrangiamenti, strumenti coinvolti, cambi di tonalità e così via. Dalla mia prospettiva, ho cercato di mantenere nell’album un filo conduttore e per certi versi mi ha ispirato il modo di arrangiare le chitarre di Dann Huff [cantante/chitarrista degli statunitensi Giant fino al 2001]: quindi, chitarre pulite tenute basse nel mixing, con suoni rigonfiati tramite gli effetti alla stregua di un synth, e distorsioni non troppo dominanti. In quanto agli assoli, amo la ricerca della melodicità ed ho agito in tal senso. Forse suonare il brano che dà il titolo all’album [Garder La Flamme ] è stata la maggior sfida, con tutti quei dettagli così importanti per la precisa resa del tutto.

Il tuo equipment favorito – Fender Stratocaster Yngwie Malmsteen più testate Soldano SLO-100 e Marshall JCM-800 – la dicono lunga riguardo al tipo di sound che avevi in mente; ti sei affidato anche ad altri strumenti?
Sì, ho usato parecchie chitarre per la registrazione dell’album. Di base sono un chitarrista da Stratocaster, ma per le ritmiche ho utilizzato seicorde con gli humbucker: una Kramer, una Jackson, una G&L F-100 e una Ibanez. Ed anche la Les Paul con i DiMarzio che mi regalò mio padre quando avevo 10 anni! Come dicevo prima, in quanto alla resa dei suoni, mi sono ispirato al Dann Huff dei primi due album dei Giant. Infine, un amico mi ha dato una mano nel ricercare le combinazioni di effetti più adeguate: tra essi, un vecchio Yamaha SPX90, un Eventide H90, un DBX160A ed un Dytronics CX5. Devo dire che mi ritengo soddisfatto dei risultati!


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