BRYAN ADAMS & Keith Scott raccontano "So Happy It Hurts"

Il nuovo album del rocker canadese
di Francesco Sicheri
09 aprile 2022

photo credits: Bryan Adams

intervista

Bryan Adams
Bryan Adams & Keith Scott
So Happy It Hurts
Mettiamo subito in chiaro una cosa: il fatto che vi piaccia Bryan Adams non è assolutamente un male. Volete sapere il perché? Anche nelle tante canzoni d’amore, batte il cuore di un rocker purosangue. Il nuovo So Happy It Hurts ne è l’ennesima conferma.

A 62 anni portati con la leggerezza di un adolescente, Bryan Adams è quanto di più vicino ci sia ad un moderno Peter Pan. Diviso tra una sfrenata passione per il rock cantato a squarciagola, e l’incapacità di trattenere il suo lato più sentimentale, Bryan Adams lotta da sempre con la maledizione del successo ottenuto dai suo i brani più languidi. Amato da donzelle e cavalieri, Adams e la sua band si sono guadagnati il rispetto dei colleghi (anche quelli più ostici) grazie riff memorabili, suoni di chitarra da capogiro, ed un’attitudine dura a morire.

Malgrado brani come Heaven o Everything I Do (I Do It For You) gli siano valsi i posti più alti delle classifiche (e vendite da capogiro), Adams - con al fianco il suo vecchio amico Keith Scott - ha sempre voluto dare sfogo a quella passione instillatagli da grandi maestri come Led Zeppelin, The Who, T-Rex, e Bowie.

E così con il suo quindicesimo album, So Happy It Hurts (in uscita l’11 marzo per BMG), Adams torna a ricordarci il perché ad ogni uscita discografica ci siano sempre ottimi motivi per concedergli il beneficio di un nuovo ascolto.

So Happy It Hurts è l’ennesima prova di un autore onesto (e questo vale sia per il suo lato più arrembante, sia per quello più smielato), che non rinnega niente e nessuno, e - soprattutto - che oggi più che mai ha voglia di tornare a ricordare il perché pochi semplici accordi siano sempre stati un buon punto di ri-partenza.

Bryan, in tempi come questi cosa ti ha spinto a partorire un titolo così ottimistico per il nuovo album?
Credo che sia stato qualcosa di naturale per il modo in cui i brani hanno preso vita, e soprattutto per il tipo di brani. Il titolo è nato prima che la pandemia iniziasse, ma è tornato utile quando ormai il COVID si era diffuso in ogni dove.
Al di là del significato che può aver preso a causa della pandemia, credo sia comunque un buon titolo, perché è un gioco di parole ed è un bell’uso dell’allitterazione.

E la posa sul cofano dell’auto con la chitarra alzata al cielo?
È soltanto rock’n’roll... (ride)

Cosa ci dici, invece, della macchina che hai usato per lo shooting?
Una Chevrolet Corvair del 1964. Credo sia il primo “luogo” nel quale ho conosciuto il rock’n’roll. I miei genitori avevano una Corvair con una radio AM, ed è sicuramente lì che ho ascoltato i Beatles per la prima volta, così come molti altri.

Parliamo di "Kick Ass", che è probabilmente il tuo brano più cazzuto da diversi anni a questa parte...
Non so bene cosa dire... (ride) È successo per caso. Ho lavorato con Mutt Lange su quel brano, e senza accorgerci di nulla ci siamo ritrovati con Kick Ass. Ovviamente lo userò per aprire i prossimi show.

L’introduzione di John Cleese per il brano "Kick Ass" è qualcosa di molto divertente, come è nata? Conoscevi già Cleese prima di iniziare a lavorare sull’album?
Sono stato invitato ad un pranzo dove c’era anche lui, e siamo finiti allo stesso tavolo seduti l’uno accanto all’altro. In quel periodo stavo cercando di capire se tenere quell’introduzione oppure cercare qualcuno a cui farla leggere... Così ho semplicemente chiesto a John se avesse voglia di farlo. Quando ho ascoltato la sua registrazione per la prima volta, ho riso dal primo all’ultimo secondo.

Quello di Cleese è fondamentalmente un sermone contro la “cattiva musica”... Come ti rapporti a ciò che domina le classifiche al giorno d’oggi?
Onestamente? Credo non ci sia così tanta cattiva musica in giro. Quello che ascolto probabilmente non è quello che passano le classifiche più importanti, ma ciò non toglie che sono convinto non sia tutto così malvagio.

Nel nuovo album, oltre a brani di rock più duro e deciso, c’è anche qualche canzone d’amore, che è un ambito nel quale sei uno specialista. Andiamo in fondo alla questione: credi che le ballad siano quello che ti permette di portare l’album in tour così da suonare anche il resto del tuo catalogo?
Non la metterei così. Quel tipo di brani fanno parte di me e della mia musica, e chi mi conosce sa che mi piace cercare nuovi modi per dire cose che, ovviamente, sono già state raccontate in centinaia di altre versioni. Credo fortemente ci sia sempre un modo per raccontare in maniera diversa.




Cosa caratterizza una buona canzone d’amore?
Non penso mai ad una “canzone d’amore”, nella mia testa sono tutte soltanto canzoni. Quando scrivo penso solo al giusto groove, al modo in cui le altre persone possono relazionarsi alle mie parole. Non ho mai scritto un brano pensando al suo “genere”.

Pensando ad un brano come On The Road, viene naturale chiederti quanto ti sia mancato il palcoscenico in questi due anni...
Moltissimo, ovviamente, ma credo che non potesse andare diversamente. Pensavo si intravedesse la possibilità di un ritorno dal vivo in maniera costante, ma pare che le date italiane verranno cancellate e non soltanto spostate, così come quelle in Germania e Spagna. Non so bene cosa dire, se non che mi piacerebbe avere notizie migliori. Anche soltanto pensarci mi deprime un po’.

Cambiamo argomento allora. Durante le cinque decadi della tua carriera hai suonato in ogni luogo del pianeta, compresi Vietnam, Nepal e Pakistan. Sei stato insignito di ogni onorificenza possibile, e sei persino raffigurato su un francobollo... Cosa altro c’è da conquistare per Bryan Adams?
So che potrà sembrare patetico, ma non penso mai a queste cose. Cerco di vivere un giorno alla volta, e di rendere ogni giorno il migliore possibile. Ultimamente sono stato impegnato in una valanga di progetti. Il nuovo album, ma anche i brani tratti dal musicalPretty Woman del 2018 che ho scritto con Jim Vallance. Ho registrato tutto da solo e penso proprio che li farò uscire a breve. Inoltre sono stato occupato in studio con Taylor Swift, e ho iniziato a ri-registrare tutti i miei vecchi master. Insomma, quello che mi tira fuori dal letto è la creativà.

Senti Bryan, ma è vero che sei riuscito a vedere i Led Zeppelin dal vivo ben due volte quando erano in attività?
Vero, ed è stato proprio come ve lo aspettereste: assolutamente incredibile! Ho visto molti dei miei eroi dal vivo nel loro momento d’oro. T-Rex, Beach Boys Deep Purple, The Who, e Bowie. Con Bowie sono anche stato in tour anni dopo... Ho avuto modo di conoscere bene Eddie Van Halen, una persona squisita oltre che un musicista sensazionale. Pensate inoltre che Stevie Ray Vaughan apriva i nostri concerti all’inizio degli anni ‘80. Altri due artisti che mi hanno influenzato moltissimo e che ho visto molte volte dal vivo sono Steve Marriott e Joe Cocker. Con Joe, poi, ho avuto la fortuna di lavorare in studio. Devo ammettere però che mi sarebbe piaciuto conoscere Phyl Lynott, ma ahimé non ne ho avuto l’ooccasione.

Spesso hai detto che nella tua band sei “soltanto” il bassista. È vero?
A volte sono solo il bassista, altre volte sono il chitarrista, ed altre volte sono il batterista. Faccio tutto quello che serve.

Vuoi parlarci delle chitarre che hai suonato su So Happy It Hurts ?
Certo. Per le tracce acustiche ho usato una Martin D-12. Per quanto riguarda le elettriche invece ho usato svariati strumenti. Anzitutto una Gibson ES-295 degli anni ‘50, quella che vedete anche sulla copertina dell’album. Ne ho possedute diverse nel corso degli anni. Adoro la ES-295, non solo per il sound dei P90 ma anche per il suo look. La combinazione delle due cose la rende irresistibile per me.

Credi sia la chitarra alla quale sei più legato?
Penso proprio di sì. Ne ho due al momento, una del 1954 ed una del ‘53. Entrambe suonano divinamente.




Ti sei mai considerato un collezionista?
Non direi. Forse c’è stato un periodo della mia carriera nel quale ho acquistato alcuni strumenti pensando di iniziare una collezione, ma mi sono presto accorto che non mi piaceva lasciarli fermi a prendere polvere. Sono sempre stato più attratto dalle chitarre che posso realmente usare dal vivo e in studio di registrazione.

Quali altri strumenti hai usato per il nuovo album?
Per questo album ho usato anche la Stratocaster Cherry Red con la quale ho registratoRun To You nel 1984. Ho rispolverato anche la Les Paul diSummer of ‘69 , ed infine ho usato una Stratocaster Ritchie Blackmore che mi ha regalato Keith Scott diversi anni fa. Non è uno strumento molto “facile” per me, per via della tastiera scalloped, ma mi piace molto il suo suono.

Insomma, hai tirato fuori tutti i pezzi da 90... Sapevi già quali chitarre usare per i vari brani, oppure sono nati successivamente alla scelta degli strumenti?
Non c’è stata alcuna pianificazione. Tutti giorni entravo nel mio studio di registrazione, appuntavo delle ideee sulla lavagna, e provavo a farle diventare delle canzoni. Alcune sono state aiutate dagli strumenti, mentre per delle altre ho scelto le chitarre a canzone ultimata. Usare diversi strumenti è stato anche un buon modo per tenere alto il morale. Dovendo lavorare lontano dai miei compagni di gruppo, e potendoli vedere soltanto via Face Time non è stato sempre facilissimo mantenere il giusto spirito.

Credi che il tuo playing sia cambiato nel corso degli anni?
Penso che andare in tour da solo con Gary Breit, il pianista che suona con me, sia stato fondamentale per la mia crescita come chitarrista. Nel 2010 abbiamo fatto un tour acustico insieme, soltanto piano, chitarra e voce, ed abbiamo anche pubblicato un album,Bare Bones. In quell’occasione ho dovuto dare il meglio di me alla chitarra, e penso che quella tournee mi abbia aiutato a prendere una diversa consapevolezza dei miei mezzi e delle mie lacune.

Come è cambiato il tuo rapporto con Keith Scott, il chitarrista della band. Lavorate insieme dagli anni ‘70, che tipo di alchemia c’è tra di voi?
Prima che un collaboratore, Keith è anzitutto mio fratello. Ci conosciamo da quando avevamo sedici anni, abbiamo fatto talmente tante esperienze insieme che tra di noi si è instaurata una vera e propria simbiosi artistica e lavorativa. L’aspetto più bello del nostro rapporto però è l’umorismo, quando siamo insieme non ci prendiamo mai troppo sul serio e ridiamo molto l’uno dell’altro. Penso che quello sia il vero segreto.

Certo è che da quando avete iniziato a suonare insieme sono cambiate parecchie cose...
Questo è poco ma sicuro. Credo che oggi un po’ di chitarra in più non farebbe male ai giovani. Ma sembra che siano molto più interessati ai loro iphone.

Forse serve qualcuno di giovane che li scuota, un nuovo Kurt Cobain magari... In fondo l’ultima rivoluzione musicale è avvenuta a inizio anni ‘90...
Se ti riferisci alla musica “chitarristica” è sicuramente così. Ad ogni modo non è mio il compito di svegliare i giovani. Serve qualcuno della loro età, qualcuno a cui si possano relazionare. Io ho già fatto la mia parte, ora tocca a qualcun altro.

Grazie Bryan, è stato un piacere.
Piacere mio. Abbiate cura di voi.






KEITH SCOTT

Fianco a fianco in studio e sul palco dal 1976, Bryan Adams e Keith Scott sono un duo indissolubile. E così, seppur lontani a causa della pandemia, Scott e Adams sono tornati a lavorare insieme anche per So Happy It Hurts .

Classe 1954 ed originario di Vancouver, ci sono grandi possibilità che - anche senza saperlo - abbiate già ascoltato Keith Douglas Scott centinaia di volte.
Il suo lavoro con Bryan Adams l’ha proiettato sui palchi più importanti del globo, ed in occasione dell’uscita del quindicesimo lavoro discografico di Adams, abbiamo colto l’opportunità di fare anche qualche domanda anche al suo storico “partner in crime”.

Ciao Keith, grazie per averci concesso del tempo. Come stai?
Grazie a voi. Sto bene, tutto andrebbe meglio se si iniziasse a vedere una sorta di fine della pandemia. Ma tutto sommato non sto male.

Siamo qui perché sei tornato a farti sentire insieme a Bryan Adams con il nuovo album So Happy It Hurts. Rispetto a quanto fatto tre anni fa per Shine A Light è cambiato di molto il vostro modo di lavorare?
Direi che è stato completamente stravolto. Per Shine A Light Bryan ha fatto la maggior parte del lavoro, mentre per So Happy It Hurts il mio contributo è stato molto più ingente. Ho registrato le parti di chitarra nel mio studio personale, mentre Mutt Lange e Bryan lavoravano a distanza. Abbiamo dovuto adattarci a collaborare via mail e in video-conferenza, ma è stato comunque molto bello tornare a lavorare insieme su un album.

C’era qualcosa di specifico che volevi ottenere con questo nuovo lavoro discografico?
Non direi, il mio unico scopo con Bryan è sempre quello di servire al meglio i brani proposti. Mi trovo sempre a mio agio quando posso “aiutare” una canzone ad esprimersi in tutta la sua forza.

Ci sono dei brani della tua carriera con Bryan, o di questo ultimo album, dei quali sei particolarmente fiero?
La lista è molto lunga. Sono una persona felice di guardarsi alle spalle e vedere che non c’è alcun album del quale non poter andare orgoglioso. So bene che può sembrare una “risposta confezionata”, ma per me è realmente così. In generale credo che i brani di So Happy It Hurts mettano in luce delle ottime chitarre e del rock dal buon tiro, che poi è quello che abbiamo sempre cercato di fare. Le collaborazioni con Bryan e Mutt Lange mi hanno lasciato tantissimi ricordi piacevoli, se dovessi scegliere un periodo in particolare direi però che gli anni ‘90 sono stati i più “vivi”.

Hai detto di essere stato coinvolto molto nella lavorazione di questo nuovo album. In quale ruolo?
Per le parti di chitarra, ovviamente, anche se sapete sicuramente che Bryan non ha bisogno di troppo aiuto in quel senso. Potrebbe fare tutto da solo, ma quando lavoriamo insieme ci completiamo a vicenda. Per So Happy It Hurts ho ricevuto i brani soltanto abbozzati, e mi sono occupato degli arrangiamenti e di qualche parte solistica. In generale è stato un continuo scambio di idee tra me, Mutt e Bryan.

Il tuo rapporto con Bryan va avanti ormai da tantissimo tempo... C’è un segreto in questo tipo di sodalizio?
Credo che rimanere amici e divertirsi sia alla base di ogni buona relazione “duratura”. Il music business è cambiato molto, e quando le cose si fanno dure all’esterno è bello poter avere degli amici su cui contare e con i quali fare gruppo. Sono contento che con Bryan le cose siano sempre state così.

Sul piano artistico ci sono cose che hai imparato dopo così tanti anni al fianco di Bryan?
Credo di aver imparato come far emergere la voce dell’artista con cui lavoro. È qualcosa che ho assimilato nel tempo e che ho imparato a fare in maniera diversa a seconda della situazione in cui ci troviamo a suonare.

Ti sei mai dovuto fermare dal virare su un tipo di approccio molto più incentrato sul tuo strumento?
Sono un figlio degli anni ‘60, pertanto la chitarra solista è sempre stata una mia stella guida, ma nel tempo la musica è cambiata moltissimo. Adattarsi è fondamentale ed anche riconoscere i propri limiti. Con il passare degli anni ho scoperto che adattarmi al cambiare del panorama musicale mi interessava molto più del brillare come stella solista. Credo, fondamentalmente, che le canzoni mi siano sempre piaciute più di ogni altra cosa. Forse anche più della chitarra stessa.

Nella vita di ogni chitarrista ci sono dei momenti (o talvolta un momento specifico) nei quali comprendiamo che il nostro suono si sta spostando su un piano più “professionale”. Ricordi quali sono stati i tuoi?
Bella domanda. Sono stati molti, ma credo che le “rivelazioni” arrivino sempre molto dopo il momento vero e proprio. Nella vita di ogni musicista gran parte del tempo è spesa sullo strumento, e non si riesce sempre a distaccarsi e guardare a quanto fatto “con separazione”. Con Bryan oltretutto abbiamo avuto modo di lavorare con produttori e ingegneri tra i più importanti al mondo, e questo mi ha aiutato - spesso inconsciamente - a migliroare il mio approccio al suono ed al lavoro sulla chitarra.

Ricordi se ci sia stato uno strumento specifico che ti ha permesso di fare il “salto di qualità” sul piano sonoro?
Nei primi anni con Bryan sapevamo pochissimo di quello che era “un buon suono”. Dopo i primi album però, anche grazie ai soldi a disposizione, davanti ai nostri occhi si è aperto un mondo. A quel punto ho iniziato a comprare e provare tantissimi amplificatori e chitarre. Devo dire in generale che una Fender Stratocaster degli anni ‘60 ed un VOX AC30 sono ciò che mi ha fatto comprendere cosa fosse un “bel suono” nella mia testa.

Sul piano del playing ci sono cose che oggi ti interessano molto più che in passato?
In realtà credo mi sia sempre interessata una sola cosa, ovvero la melodia. Ultimamente però sto sperimentando un pochino con qualche accento elettronico e con delle atmosfere un po’ più cupe di quanto solitamente faccio con Bryan.

A questo punto avresti voglia di raccontarci quale strumentazione hai utilizzato per il nuovo album?
La chitarra principale è stata una Stratocaster del 1964, mentre l’amplificatore è un Divided By 13 FTR37. Per tutte le mie parti ho registrato anche una traccia dry che abbiamo poi riutilizzato per il reamping o con alcuni plugin.

Prima dicevi che dopo i primi album con Bryan hai iniziato ad acquistare qualche strumento. La tua attuale collezione come è composta? Quali sono i pezzi più importantI?
Sul piano affettivo direi che la Stratocaster del ‘70 (pesantemente modificata) è quella più importante. È con lei che ho registrato la maggior parte degli album con Bryan. Vediamo... poi direi che subito dopo viene la Stratocaster del ‘64, con cui ho registrato ancheSo Happy It Hurts. Non ho una collezione immensa, ma ho comunque alcuni pezzi “importanti”, come una Stratocaster del ‘59 che uso molto spesso, una Gibson ES335 del 1962, ed anche una Gibson Les Paul Sunburst del 1958.

Durante la tua carriera ricordi ci sono stati strumenti che vorresti non aver venduto, o che magari vorresti aver acquistato? Insomma Keith, quali sono i grandi rimpianti?
Riguardo al vendere non mi sono mai pentito di nulla, ma sicuramente ho dei rimpianti riguardo al non aver comprato alcune chitarre a tempo debito. Quando eravamo più giovani non davamo molto valore a determinate chitarre... Ne ricordo una in particolare, ovvero una Les Paul del 1957. Mi era stata proposta nel 1986, era appena stata riverniciata, e la persona che la vendeva voleva soltanto $800,00. Oggi è una cifra che ha del ridicolo, non trovate? Ad ogni modo a quel tempo con Bryan usavamo prettamente chitarre con single coil e così decisi di lasciar perdere. Quello è stato sicuramente un errore di cui mi sono pentito.

Considerato il prezzo attuale di quel tipo di strumento, non facciamo fatica a crederci...
Oltretutto era una chitarra che suonava molto bene. Cosa volete che vi dica? Ahimè ormai è tardi.

All’infuori del tuo lavoro con Bryan, ci sono altri progetti sui quali stai lavorando al momento?
Sto ultimando il terzo album con la mia band surf, i The Fontanas. Si tratta dell’ultimo album che faremo con questa band, con la quale abbiamo pubblicato un album natalizio giusto pochi mesi fa. Oltre a questo ho in cantiere un album strumentale incentrato sulla chitarra che potrebbe prendere vita a breve, ma non sono ancora in grado di dire quando.

Grazie per la chiacchierata Keith, è stato un piacere. Speriamo di vederti presto in Italia con Bryan.
Piacere mio! So che le date italiane sono a rischio, così come quelle in molti altri paesi. Speriamo, però, che si possa recuperare presto.


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