ERNST LEVY Armonia Negativa

di Andrea Martini
09 settembre 2024

recensione

Ernst Levy
Armonia Negativa
Volonté & Co
Sonate, suite e fantasie, orchestre sinfoniche ed ensemble più diversi, sono i territori in cui il pianista elvetico Ernst Levy (1895 -1981) ha messo la sua marcata impronta nelle vesti di compositore (numerosissime le sue sinfonie di musica da camera) ma anche di concertista (“ha saputo catturare la vera essenza del “Faust” di Liszt e delle ultime sonate di Beethoven, giusto per fare esempi...” – come asserisce David Dubal). Ma non solo: musicologo di gran lignaggio, generoso e desideroso di trasmettere il suo know-how, Levy ha svolto una intensa attività di didatta, insegnando al MIT di Boston, alla University of Chicago ed al New England Conservatory; poi, nel 1966, la decisione di ritirarsi e rientrare nel suo Paese d’origine.

Studi approfonditi portano Levy a sviluppare il suo peculiare approccio alla teoria musicale che, nel 1985, saranno condensati nel testo A Theory of Harmony, uscito postumo a cura della State University of New York ed ora reso disponibile in lingua italiana. Il testo sintetizza in maniera efficace l’idea innovativa di Levy, fornendo una spiegazione altamente originale del linguaggio armonico calato nell’epoca moderna che trova la sua collocazione nell’improvvisazione e nella composizione jazzistica, ribattezzata “armonia negativa”.

Come spiega Angelo Bordieri nella...

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prefazione (chitarrista e compositore genovese, nonché traduttore dell’opera in questione): “Levy parte dal presupposto che, per ogni accordo di una determinata tonalità, esista un suo corrispettivo “negativo”, per una teoria che non vuole porsi come verità assoluta (concetto già suggerito dal titolo dell’opera: “una” teoria dell’armonia...) ma, al contrario, come un modo diverso di approcciare e spiegare l’armonia musicale rispetto a come era stato fatto fino a quel momento. [...] Ogni diverso percorso, tuttavia, può fornire una diversa raccolta di informazioni. Levy passa al setaccio gli ultimi cento anni di evoluzione dell’armonia musicale, chiamando in causa musicisti e filosofi, Goethe su tutti. Quest’ultimo si occupò della controversa interpretazione del modo minore, punto nevralgico per la trattazione della teoria. [...] Come osserva Levy, mentre la triade maggiore può essere spiegata attraverso il fenomeno naturale degli “ipertoni”, ciò non accade per la triade minore, costituita da “subtoni”, cioè frequenze inferiori a quella della Fondamentale, fenomeno però non riproducibile in natura. Da qui si genereranno due scuole di pensiero e le relative teorie, ossia, quella della polarità, che tratta maggiore e minore come fenomeni reciproci ed equivalenti (per Levy “consonanze perfette”), e quella della torbidità, meno accreditata, che al contrario considera la triade minore una forma “alterata” della triade maggiore. Levy supera il dogma seguendo strade alternative, partendo dal presupposto che triadi maggiori e minori debbano essere poste sullo stesso piano. Levy osserva inoltre come ogni periodo storico sia stato caratterizzato da un diverso approccio nei confronti dell’armonia, fino a determinare un’impronta culturale capace di influenzare i compositori e le loro stesse opere...”

A Theory of Harmony è un testo destinato quindi a chi abbia una buona conoscenza della teoria musicale e dell’armonia, pur se l’aggiunta dell’introduzione di Paul Wilkinson (noto compositore e docente britannico) offre parecchi spunti perché sia più accessibile a studenti, musicisti e musicologi delle nuove generazioni, mostrando come lo stesso continui ad ispirare un’espressione originale attraverso i generi musicali diversi. Classe 1956, Steve Coleman (sassofonista jazz statunitense che non necessita di presentazioni) è il primo ad applicare la teoria della polarità e simmetria in modo nuovo e creativo, seguito da una pletora di musicisti jazz di altrettanto peso e valore. Venendo ai nostri giorni, anche il poliedrico Jacob Collier si abbevera alla fonte di Levy e non ne fa mistero. Classe 1994, il giovane compositore/polistrumentista britannico, notato da Quincy Jones, spazia tra jazz, fusion, soul e funk e gli strumenti più diversi, ed è vincitore di 5 Grammy Award; come Bordieri spiega nella prefazione del libro: “la padronanza del tema e la sua visione suggeriscono quella che potrebbe essere considerata una sorta di estensione del lavoro di Levy, comunque già iniziata con Steve Coleman. [...] Una eredità apparentemente dimenticata ma che invece torna alla luce grazie a musicisti come Collier e Coleman, oltre a tutti coloro che hanno saputo raccogliere e interpretare le parole di Levy fungendo da camera di risonanza del suo pensiero. Ciò rappresenta certamente un’estensione di quanto Ernst Levy ha svolto nel corso della sua vita.”

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