MY MORNING JACKETS The Waterfall II
recensione
Da allora, questa band (all’epoca) emergente - si parla di fine anni ’90 - mi ha sempre coinvolto, intrigato. Produzione discografica a parte, ebbi poi ulteriore avallo della solidità della formazione assistendo al mitico concerto che i Pearl Jam tennero a Torino nell’estate del 2006. I My Morning Jacket, in apertura, incantarono il pubblico battezzando il loro set con una memorabile versione di At Dawn , uno dei loro capisaldi. In quell’occasione, James e soci diedero vita ad uno show incendiario, passionale, vibrante, senza risparmiarsi in nulla, stupendo tutti con la cover di A Quick One (While He’s Away) degli Who: non un brano qualsiasi, dunque, ma un’impressionante opera rock racchiusa nell’angusto spazio di una manciata di minuti. Quel capolavoro fu eseguito in duetto con uno scatenato Eddie...
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Vedder, il quale, durante la performance, ruppe addirittura la membrana dei tamburelli che stava suonando con foga animalesca [per chi volesse approfondire, la scena in questione è racchiusa nei contenuti speciali del dvd Immagine in Cornice , edito dalla band di Seattle in omaggio proprio alla tranche italiana della tournée].
Da quel 19 settembre 2006, anzi, dall’ancor più remoto 1999 degli inizi fino ad oggi, i MMJ hanno proseguito con una carriera di tutto rispetto fatta di concerti, dischi e qualche deriva solista (ad esempio, le quattro prove soliste del loro leader!). Un’evoluzione, questa, che ha sicuramente cambiato la band del principio, nata prima con il nome di Winter Death Club e divenuta poi My Morning Jacket con il debutto intitolato The Tennessee Fire . La ricerca sonora del gruppo, originario di Louisville, in Kentucky, ha sempre dato frutti originali e ne ha rafforzato l’indiscutibile valore sia in studio sia dal vivo (vogliamo parlare del doppio, granitico, Okonokos ?). Il 2020 è stato foriero di un nuovo tassello, di un nuovo spiraglio creativo dal titolo The Waterfall II , successivo al primo vagito risalente al 2015. E il disco, specifichiamolo fin da subito, ha almeno tre grandi meriti: quello di essere stato edito in un periodo complesso per il mercato della musica e non solo, il 2020 del COVID-19; il fatto di aver messo sul tavolo un’ottima manciata di altrettante ottime canzoni, cosa non da poco vista l’epoca che stiamo vivendo; il merito di rappresentare il ritorno di un gruppo tra i più interessanti, e in parte discussi, del panorama statunitense.
Che le dieci “nuove” tracce di The Waterfall II appartengano al fertile biennio 2013-2014 è risaputo e la cosa può portare a due diverse considerazioni: l’apprezzamento nei confronti di un atto di ripescaggio di take vecchie ma tuttora validissime; la seconda, una (neanche tanto) velata perplessità riguardo al gesto della band e della casa discografica. Perchè far uscire questo disco oggi? Qual è il senso nascosto di tutta l’operazione? La risposta, forse, non è così essenziale. Ciò che conta per davvero è il pregio artistico insito nel disco e il fatto che il gruppo sia tornato sulle scene in una fase delicatissima per tutto il mondo portando con sè la consueta caleidoscopica tavolozza di suoni alt-rock, classic rock, psychedelic rock, blues rock… insomma, senza troppi giri di parole, di rock tout court sotto forma di idee chiare, riff potenti, sferzate chitarristiche e performance vocali di altissima qualità.
In tanti hanno scritto, commentato, giudicato The Waterfall II. In tanti hanno cercato di capirne il perchè. In troppi hanno insistito nel tentativo di etichettare a tutti costi una band che le etichette le ha sempre rifuggite, pur appartenendo ad una scuderia - la ATO Records di Dave Matthews - decisamente ben connotata. Jim James (voce, chitarra), Tom Blanckenship (basso), Patrick Hallahan (batteria), Bo Koster (tastiere), Carl Broemel (chitarre) - che lo si accetti o meno - rappresentano un combo unico nel suo genere. E tale unicità è accompagnata, come in fondo è giusto che sia nell’ambito di una carriera ventennale, da scossoni e allentamenti, da trionfi e lievi cadute di stile. Non si può dire, però, che i My Morning Jacket abbiano mai realmente deluso il loro pubblico. Sono stati sempre fedeli a se stessi, proponendo un menu vario, sempre saporito e curato in ogni aspetto. La loro cucina musicale prevede grande varietà, adattandosi anche ai palati più esigenti. Una cosa, questa, ben diversa dall’affermare che non sia “nè carne nè pesce”: soprattutto quando si ha una firma sonora così nitida, riconoscibile al primo ascolto. Un segno di grandezza assoluta, che possa piacere oppure no.
«Queste canzoni non sono B sides nè tanto meno canzoni che non ci piacevano abbastanza. Costituiscono la metà mancante di The Waterfall e ne vado fiero. Inoltre, non sarebbero mai uscite adesso se non fosse stato per la pandemia» ha ribadito Jim James ai microfoni della rivista Rolling Stone, sottolinenando l’importanza di questa release sia come modo di riconnettersi con il pubblico sia come mezzo per sentirsi nuovamente compatti a livello di band.
«È buffo perchè, da un lato, si tratta di mettere la parola fine a un capitolo… dall’altro, invece, si tratta di un nuovo inizio».
Il disco si apre con la dolce, carezzevole Spinning My Wheels sulla quale la stampa specializzata si è - pressoché unanimamente - vista concorde nel riconoscerne la bellezza e il merito di inaugurare nel migliore dei modi la sfaccettata tracklist di un’opera in cui «acqua ed ambienti naturali giocano un così grande ruolo» [Rolling Stone]. Fin dai primi secondi, l’attenzione viene irretita. Una melodia che incanta, la curiosità che ribolle. Una bella conferma arriva con la successiva, beatlesiana, Still Thinkin’ e con la trascinante Climbing The Ladder . Al quarto posto in scaletta troviamo la ballata Feel You che, per chi scrive, è anche il pezzo più riuscito del disco. Pianoforte e voce. Brividi. Il fatto che poi la traccia si dipani in cinque abbondanti minuti di rincorse elettriche bagnate di riverberi ed echi pinkfloydiani è un più, un lodevole valore aggiunto che porta i fan giovani (e meno giovani) a fare un tuffo ad occhi chiusi nel passato. È poi la volta di altri brani piacevolmente cesellati come Magic Bullet , grintosa e satura al punto giusto, la sognante Run It fino a Wasted , lisergico cavallo di battaglia dell’intera opera, e alla conclusiva The First Time .
The Waterfall II è un grande album, stop. Quando (e se) arriverà anche il terzo capitolo della saga, allora l’irripetibilità di quelle magiche sessioni - effettuate tra i Panoramic House Studios di Stinson Beach in California e rifinite poi tra Oregon e Kentucky al fianco del produttore Tucker Martine - sarà davvero completo. Nel frattempo, consiglio spassionato, godiamoci senza eccessive elucubrazioni mentali questo gradito regalo.
Bentornati, My Morning Jacket!
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