Meshuggah - "The Violent Sleep Of Reason"

di Francesco Sicheri
12 gennaio 2017

recensione

Meshuggah
The Violent Sleep Of Reason
Avalon Records
Un elemento in particolare ha sempre contraddistinto le serrate e muscolose trame sonore che di album in album hanno alimentato la carriera dei Meshuggah: la classe. La band svedese si è dimostrata una delle più solide in quanto ad integrità artistica, e questo grazie alla capacità di rimanere sempre distante dai trend del momento, che in ambito estremo sembrano ormai alternarsi alla velocità della luce cercando di rincorrere un non ben precisato obbiettivo.

Nel momento di ascoltare The Violent Sleep Of Reason, fa un certo effetto pensare all’importante anniversario pronto ad attendere la band con l’anno venturo, il 2017 segnerà infatti i trent’anni di attività del gruppo, che nel 1987 poneva le basi di un successo planetario sotto il nome di Calipash. Non sono molte le band a potersi permettere un trentennale in compagnia di una fanbase devota e senza gravi rimostranze (ogni riferimento a celebri band tornate di recente con un nuovo album non è assolutamente casuale), e questo è il risultato di una carriera spesa alla continua rincorsa di estrema accuratezza e qualità per quanto concerne esecuzione, sound e composizione.

Il format musicale dei Meshuggah è ormai un marchio di fabbrica, un colore inconfondibile, un’atmosfera...

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(o forse un insieme di più d’una) che cattura ed immediatamente trasporta in una dimensione alternativa che nel tempo abbiamo imparato a conoscere come un luogo accogliente seppur avvolto in una corazza dalle punte acuminate. Con i trent’anni pronti a bussare alla porta, i Meshuggah si fanno sentire con un album che mette molta carne al fuoco, che si distacca a livello concettuale da quello a cui eravamo ormai soliti assistere, pur sempre riuscendo a suonare come una logica prosecuzione di quanto fatto fino ad ora. Con The Violent Sleep Of Reason, il cui titolo merita una menzione d’elogio per il suo essere subdolamente ammaliante, ci caliamo nuovamente in quel mondo di disagio e frizione interiore proprio di album come Destroy Erase Improve o Chaosphere, ma immediatamente abbiamo la sensazione di un universo che si muove diversamente attorno al nostro ascolto.

È una percezione che cresce nel corso delle tracce, che si sviluppa e si arricchisce, una progressione sonora che ha un che di organico, come se improvvisamente, con ancora obZen e Koloss ben chiari in mente, nelle mura di riff poderosi, stop-and-go al fulmicotone e divisioni ritmiche schizofreniche, si riuscissero a percepire delle tracce d’errore umano silente. Non è una sensazione casuale quella emanata dal nuovo capitolo firmato Meshuggah, perché questa volta la band è tornata a lavorare in maniera “canonica”, stendendo le tracce di chitarra, basso e batteria più o meno simultaneamente. L’importanza di questa scelta è da rintracciarsi in virtù di un processo di registrazione che negli anni precedenti aveva raggiunto un grado di perversione alienante di proporzioni incalcolabili, con i membri del gruppo intenti a lavorare meticolosamente al proprio computer in stanze separate ma pur sempre adiacenti.

Niente può sostituire il feeling di una band che registra insieme ed allo stesso tempo…
Ci sono imperfezioni umane nel disco, ma è ciò che lo rende vivo senza per questo inficiare la bontà dell’esecuzione. Semplicemente è l’espressione di come delle persone suonano insieme, e non è perfetto. Per molti versi è molto onesto “Questo è il modo in cui suoniamo”. Qualsiasi membro di qualsiasi band può avere una percezione diversa del timing ed una risposta diversa al click del metronomo, un po’ in anticipo, piuttosto che tirando un po’ indietro, oppure esattamente sul click, nel nuovo album c’è un po’ di tutto questo.

Questo è quello che ci ha raccontato Thomas Haake nell’intervista che potete leggere sul numero di dicembre di DrumClub Magazine.

Molte persone pensano che registrare in digitale ed in maniera separata ogni strumento sia l’unico modo per portare a casa una registrazione perfetta. Ma la realtà è che band di tutto il mondo hanno registrato “live” per quarant’anni prima dell’arrivo di Pro Tools. Allora si faceva in quel modo. Avevi un chitarrista in una cabina, il bassista in un’altra ed il batterista in un’altra ancora, e a volte erano tutti nella stessa sala, si alzava il volume e si registrava. Tutti i brani che amiamo di quegli anni non sono stati registrati come facciamo oggi, registrando prima le tracce di batteria e poi editando tutto così da poter aggiungere basso e chitarra. Abbiamo covato il desiderio di tornare a registrare insieme per diversi anni, ma per ragioni che onestamente non ti so spiegare bene non siamo mai riusciti a farlo prima di questo nuovo album.

Il ritorno ad una registrazione di gruppo si fa inevitabilmente sentire in The Violent Sleep Of Reason, il quale porta con sé spunti che sembrano derivare direttamente dai tempi d’oro di Destroy Erase Improve, ma allo stesso tempo mostra in maniera chiara la nuova realtà di un gruppo che con il passare degli anni sta lasciando evolvere il proprio stile in una più “acclimatata”, ma non per questo debole, versione di ciò che gli album capolavoro hanno consegnato al mondo. In questo nuovo lotto sono pochi i momenti in cui la band raggiunge la velocità e la frenesia che l’hanno resa famosa, e, seppur esaltanti, sono troppo distanti ed esigui nello svolgersi della tracklist per non prendere atto del generale acquietarsi dell’urgenza che aveva travolto gli ascoltatori fin dal debutto del gruppo.

La produzione è asciutta, scelta che non si tramuta in un clima sonoro asettico ma che in alcuni brani, soprattutto quelli adagiati su tempi più lenti e cadenzati, avrebbe potuto giovare della cura maniacale prestata ad esempio ad un album come obZen. Proprio a quest’ultimo The Violent Sleep Of Reason guarda in maniera esplicita ed in più di un episodio, inoltre non mancano i richiami a Nothing o Catch Thirtythree, consegnandoci pertanto un disco di grande impatto, più secco rispetto al predecessore ma non per questo orfano degli elementi chiave che ogni buon disco firmato Meshuggah deve possedere.

Born in Dissonance è uno di quei brani della scaletta che riporteranno alla mente molti ricordi del passato, ponendoli però sotto luce nuova. Le texture solistiche frenetiche, che sembrano essere estratte direttamente dalle tracce di una demoniaca colonna sonora “chiptune”, sono pronte a dipingere, insieme all’ossatura thrash del brano, l’avvento di quel mostro ancestrale che Haake ha immaginato tornare sulla terra e ripulire l’errore fatto con la sua creazione. Anche la traccia che dà il benvenuto, Clockworks, è un ottimo esempio della esplosiva miscela rimestante particelle prese dalla prima era del gruppo così come dagli album più recenti, tuttavia il disco non sempre riesce nell’esprimere quel senso di impellente necessità d’uscire dalla propria gabbia tanto perfettamente racchiuso dalle tematiche che il titolo suggerisce. Riguardo a quest’ultime Haake, paroliere dell’ensemble, ha adottato una tecnica evasiva ma comunque capace di non lasciare grandi dubbi riguardo al suo obbiettivo, brani come Stifled parlano chiaro nell’enunciare i versi: “Your self-avowed murderous God…/Your commands unheard underground/Where your voice will never resonate […]”

A livello testuale questo brano è uno sguardo sulle dittature – ha detto Tomas Haake - e su come troppo potere consegnato ad un solo individuo si tramuti in abuso di potere. Credo che l’umanità l’abbia visto ben più di una volta nel corso degli anni, con risultati ovviamente terribili. Le persone che hanno pieno controllo del potere portano alla morte di milioni di altre persone, e questo brano parla semplicemente del voler prendere questi individui ed eliminarli.

The Violent Sleep Of Reason
, malgrado il suo indugiare più del previsto su tempi “seduti” e più comodi rispetto agli standard del gruppo, è a pieno diritto un album capace di far onore al nome Meshuggah grazie a brani come Ivory Tower, Nostrum o MonstroCity, giusto per citarne tre. Al contempo questo nuovo capitolo mostra chiaramente le tracce di una svolta verso ritmi e velocità meno estremi alla quale potremmo dover fare l’abitudine, giusto prezzo da pagare per il grande beneficio di non vedere la band cadere in paradossali momenti auto-caricaturali.

I Meshuggah sono tornati e, anche se con un evidente calmarsi della foga alienante del passato, sono stati in grado di dare alle stampe un disco di grande potenza, un album dal quale è piacevole farsi investire in quell’efferata ma sempre cosciente sottomissione alla grandezza di una band che abbraccia il passare degli anni con continua voglia di mettersi in gioco.

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