Chris Horses Band "Dead End & A Little Light"
di Umberto Poli
12 novembre 2019
recensione
Chris Horses Band
Dead End & A Little Light
AZ Blues
Ci vuole coraggio. Anzi, ci vogliono coraggio e una buona dose di sana incoscienza per far uscire un disco del genere, in Italia, nel 2019. Copertina psichedelica, cappelli da cowboys, occhiali da sole, sigarette, piercing, orecchini, barbe, baffi, capelli incolti, brani lunghi e infarciti di soli di chitarra elettrica: la Chris Horses Band, ad un primo impatto visivo e sonoro, potrebbe sembrare questo e, forse, poco altro. Un vero peccato. Soprattutto per coloro i quali non dovessero avere la voglia e la pazienza di soffermarsi, di andare oltre, di esplorare questo piccolino gioiellino nostrano senza galleggiare passivamente in superficie, temendo erroneamente l’ennesima riproposizione farlocca di cliché e atteggiamenti triti e ritriti da grandi rockstar dei tempi che furono.
Cristian Secco (aka Chris Horses, detto anche “Il Cowboy delle Tre Province”) e compagni, hanno invece talento, idee e grinta da vendere, uniti ad un’esplosiva riserva di energia in tutto e per tutto inversamente proporzionale alle loro giovanissime età - in media comprese fra i 19 e i 25 anni. Originari del veneto, questi cinque ragazzi - CH, chitarra e voce; Mattia Rienzi, chitarra; Marco Quagliato, basso; Marco Tirenna, batteria; Giulio Jesi, sax - stanno spiazzando (ultra positivamente) la critica del...
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Cristian Secco (aka Chris Horses, detto anche “Il Cowboy delle Tre Province”) e compagni, hanno invece talento, idee e grinta da vendere, uniti ad un’esplosiva riserva di energia in tutto e per tutto inversamente proporzionale alle loro giovanissime età - in media comprese fra i 19 e i 25 anni. Originari del veneto, questi cinque ragazzi - CH, chitarra e voce; Mattia Rienzi, chitarra; Marco Quagliato, basso; Marco Tirenna, batteria; Giulio Jesi, sax - stanno spiazzando (ultra positivamente) la critica del...
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Bel Paese con un’opera prima concepita e realizzata coi fiocchi, curata in ogni dettaglio e avallata dalla prestigiosa approvazione di AZ Blues, realtà ormai sempre più affermata nel panorama italiano di matrice blues, roots, rock ad ampio raggio internazionale: dal booklet imbevuto di aromi seventies a cura di Antonio “Woody” Boschi (Wit Grafica) alla già citata (e tremendamente evocativa) immagine di copertina, dalle canzoni (appena 8, proprio come Pronounced 'Leh-'nérd 'Skin-'nérd.. un caso?) agli arrangiamenti, mai scontati e cesellati al millimetro. La musica, infine, e che musica. Nomi e influenze si rincorrono, si sprecano, risultando così tanti e variegati che risulterebbe assai complesso elencarli uno ad uno: quel che è certo sono le meravigliose sensazioni che Dead End & A Little Light - in chiave originale e per nulla scontata - regala all’ascoltatore in un “southern magical mistery tour” fatto di incontri, dialoghi, scambi continui. Ronnie Van Zant che stringe la mano a Bob Seger, Eddie Vedder che chiacchiera allegramente con Dave Matthews, i fratelli Hawkins dei The Darkness che si lanciano in assoli al fulmicotone mentre il Jimmy Page dei tempi di Kashmir testa in studio nuovi e potenti riff.
Quadri, visioni, schizzi di imprevedibili colori e note, una delizia irresistibile per le orecchie: il primo album della Chris Horses Band sorprende ad ogni ascolto, non molla un attimo la presa, richiede tempo, attenzione e curiosità al fruitore e al tempo stesso dona senza sosta brividi a profusione. Canzoni del genere non si scrivono a tavolino: l’iniziale Dead End, la successiva grunge-oriented In Silence, la sontuosa This Old Town fino alla conclusiva A Little Light sono la prova tangibile di questo incredibile viaggio dall’oscurità alla luce del quintetto. Dead End trasuda verità e bellezza, la fresca genuinità (ed ingenuità) di ogni esordio, racconta storie di vita e di amicizia, di lacrime e sorrisi, ha la forza di una eco formata dalle voci di gente che - età anagrafica a parte - ha conosciuto Paradiso e Inferno (quegli stessi Heaven and Hell di cui cantavano gli Who) ed è vissuta, o sopravvissuta, così a lungo da riuscire a trasformarla miracolosamente in arte, tracolla sulle spalle, plettro tra le dita e amplificatori a tutto volume. Ci sarebbero ancora “così tante cose da fare, così tante parole da dire” (so many things to do, so many words to say).. ma lascio a voi il gusto e il fascino di completare il resto della scoperta.
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