DITZ The Great Regression

di Francesco Sicheri
30 marzo 2022

recensione

DITZ
The Great Regression
Alcopop!
In 30 secondi di musica The Great Regression sguscia da una cavalcata shoegaze ad una decompressione doom, per poi tuffarsi in un hardcore punk spumeggiantemente idiosincratico. Questo potrebbe anche bastare.

Ma dopo l’incipit di Clocks, traccia di apertura del debutto discografico firmato dagli inglesi Ditz, ci sono altri 9 brani, i quali riescono a non annoiare mai… O perlomeno riescono a risvegliare l’attenzione con aggressioni noise pronte ad intervenire programmaticamente senza preavviso. Dieci tracce abrasive, e non c’è aggettivo più calzante per definire la sensazione di incessante scuoiamento sonoro che la band riesce a trasmettere in quello che - a tratti - sembra il decalogo del moderno screamer.

Uditivamente distopico, tematicamente sarcastico, pregno di una scanzonata disillusione dark-punk incarnata alla perfezione dalle sgraziate incrostazioni chitarristiche che fanno da intelaiatura per i voli orrorifici delle performance canore di Cal Francis: The Great Regression aggredisce sbeffeggiando, per poi rassicurare con un calcio nel culo.



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La band di Brighton sa dosare bene le sue sfuriate, e sa anche condire i suoi conati più violenti con la giusta presenza di ritmi seduti e composti (I Am Kate Moss e la sezione iniziale di Instinct su tutte). Difficile, però, parlare di intere composizioni capaci di attenersi ad un unico mood. Ogni brano di The Great Regression è una combinazione di divagazioni sonore molto diversificate, talvolta al limite dell’eccentricità forzata. Ciò che conta è il risultato finale, e quest’ultimo si manifesta in un pot-pourri di chitarre distorte, stop-and-go al cardiopalma ed urla inarrestabili.

Post-punk, experimental hardcore, noise, o forse semplicemente un disco con due palle grandi come una casa.

 

 


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