FOO FIGHTERS But Here We Are
recensione
Dal 1997 Dave Grohl ha un diario chiamato Foo Fighters, al quale si confessa incessantemente e dal quale si abbevera quando assetato dalla siccità della vita. La recente scomparsa di Taylor Hawkins e della madre di Grohl, Virginia, avrebbero potuto facilmente interrompere la vita della band, ma la pelle di Grohl è ormai più dura della roccia. Fra dolori devastanti, perdite improvvise e cadute nelle profondità dell’anima, Grohl ha sempre raddrizzato la sua vita grazie ai Foos. Una band che è un’ancora salvifica, un centro di riabilitazione ed una spalla su cui appoggiarsi. Non è un caso che Rescued , singolo di lancio e manifesto del nuovo album dei Foo Fighters ( ...
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But Here We Are ) racchiuda qualcosa di molto significativo. I’m just waiting to be rescued , - canta e implora Grohl nel ritornello del brano - bring me back to life.
Sono parole che potrebbero attraversare in maniera trasversale la vita di Grohl e di molti suoi compagni. È una preghiera basilare, semplice, ma profonda perché viene dritta dal cuore di chi ha tutti i diritti di pretendere (finalmente) “un po’ di assoluzione”. Fulmineo ( It came in a flash ), imprevedibile, ( it came out of nowhere ), inafferrabile ( It happened so fast ), e sempre pronto a lasciare un vuoto incolmabile ( and then it was over ), il modo in cui la morte ci attraversa è qualcosa che non si può congelare. Non è da tutti volerne fare una canzone, ma quella Smemoranda che vi accompagnava al liceo per Grohl ha preso il nome di Wembley Stadium, Mediolanum Forum, Glastonbury, Stadio Olimpico, O2 Arena...
È il cantico degli sciagurati, quello di Rescued , e vale per Grohl quanto per Hawkins, ma vale anche per tutti quelli che sgomitando nel pit, o affacciandosi dalle piccionaie delle tribune, si uniscono alle grida per esorcizzare le loro personali perdite quotidiane.
Io sono ciò che manca dal mondo in cui vivo , recita Valerio Magrelli nella sua omonima poesia. In maniera quasi lacaniana, si potrebbe azzardare a dire che vivere è l’assoluta necessità di colmare una mancanza, la quale è essa stessa pregna di significato proprio perché priva di qualcosa. Noi esistiamo, e viviamo, in ciò che ci manca, e Grohl lo sa fin troppo bene. Bene, l’ennesimo album di buona musica creato a partire dalla miseria... Sbagliato. But Here We Are è la prova che Grohl ha ormai imparato bene a maneggiare tanto la musica, quanto la quotidianità: celebrando i caduti ma non dimenticandosi di festeggiare al banchetto della vita con chi è ancora presente.Ecco quindi che But Here We Are prende le cinque fasi del dolore e compie una crasi dando vita a qualcosa che traghetta all’abnegazione come precetto inamovibile della glorificazione. L’album è una celebrazione della vita, che passa sì attraverso la morte, ma che si concretizza al suo apice quando il peso di parole come I Had A Vision of You, And Just Like That / I Was Left to Live Without It (dal brano The Glass ) si propagano nell’aria cullate da quella scanzonata vena anni ‘90 che Grohl non riesce mai a scrollarsi di dosso.E se il “candore da confessione” di una traccia come Under You diviene l’odierna colonna sonora per il ritorno sul mercato delle Footos (i più giovani corrano a rivedersi il videoclip di Big Me ), anche il peso di una ballad cuore a cuore come The Rest finisce interrotta da un crescendo esplosivo (perfetta chiusura prima dei bis dal vivo) che fa invidia al Re che apre Killing In The Name Of dei RATM.
Tutto torna (sempre e comunque) alla spasmodica necessità di pragmatismo dei Foos, i quali sono (sempre e comunque) dei tipi da pane e salame, non da uovo cotto a bassa temperatura. Non tutti possono permettersi di contemplare l’eternità dei pensieri sparsi fra un animo sofferente e l’altro: c’è chi la mattina deve andare a lavorare. L’animo proletario dei Foos non è sparito neanche oggi che - più che meritatamente - sono le Rolls Royce del rock mainstream. Tutt’oggi con una schitarrata ad alto volume provano a curare ogni malattia, ogni prematura dipartita, ed ogni male della vita, sapendo che il giorno dopo alle 7:00, o forse anche prima, si tornerà a lavorare.
Il più sornione dei riff non cancella la profondità delle parole che, come macigni, gli si chiede di traghettare fra ritornelli da stadio e melodie divulgate come gospel... Ma in qualche modo tiene alto lo spirito.
Gli americani, ancor più degli inglesi, sono diretti nel convogliare un messaggio. Ed in questo i Foo Fighters sono maestri. Happy-sad è qualcosa che noi, italiani fin troppo avvinghiati alle convolute beltà della nostra nobile lingua, non sapremmo mai ridurre ad un composto così eminente come il semplice affiancare due aggettivi sperando che assumano un senso compiuto. Eppure, grazie a Dio, qualcuno ci riesce. Dave Grohl lo fa da anni, e But Here We Are lo fa eloquentemente nell’arco di dieci tracce. Undici album più tardi, la tempra musicale dei Foo Fighters non cambia troppo rispetto a quanto ascoltato dal 1995 a questa parte. Quei riff giganteschi e quel suono distorto al punto da far tremare le pareti - ma comunque ricco dell’aria necessaria al far vivere tutti gli elementi - sono ancora lì, vivi e vegeti. Il motivo dietro a questa costanza è semplice: i Foo Fighters non sono mai stati una band. I Foos sono la visione musico-terapeutica di Dave Grohl, l’infinita Smemoranda, l’eterno solco su cui incidere tutto ciò che si ha bisogno di gridare al mondo ma che troppo spesso si finisce per non esternare. Allo stesso tempo, però, bisogna dare a But Here We Are quello che si merità. È album che fornisce un buon esempio della crescita musicale di un progetto che, proprio grazie a all’amicizia di Grohl e Hawkins, ha aperto le porte a contributi esterni. È agrodolce la sensazione che deriva dal pensare come proprio la scomparsa di Hawkins possa aver rinvigorito la verve dei Foo Fighters, ma in fin dei conti ha senso. Dopo anni spesi a combattere la vita da solo, Grohl ha finalmente bisogno di aiuto, è lui a gridarlo fina dalla prima traccia: I’m just waiting to be rescued.
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