19 febbraio1980 La fenice chiamata AC/DC

di Francesco Sicheri
01 gennaio 1970
19 febbraio 1980, Bon Scott viene trovato senza vita a Dulwich, nella zona sud-est di Londra, nella Renault 5 di un amico. Tutto avviene nel modo più tragicamente iconico, Scott perde ufficialmente la vita per abuso da alcol, questione ancora oggi dibattuta, e l’età del cantante è ancora più spaventosamente simbolica. Scott ha 33 anni.

Gli AC/DC sono nel momento di maggior forza della loro giovane carriera, Highway To Hell ha mostrato al mondo intero di cosa la band australiana sia capace, ma improvvisamente sotto ai piedi del gruppo si apre un baratro dal quale sembra impossibile risalire.

 

Tutto ciò che circonda la morte di Bon Scott sembra gridare ad una sorta di complotto dell’universo, e tale sensazione si amplifica ancora di più se si pensa che proprio la sera prima di morire, Scott aveva dato una mano a Malcom e Angus nel lavorare a due brani. Uno dei due era Have a Drink On Me. Un drink di troppo, un drink che ancora oggi desta diversi dubbi.

 

Nel 2017 Jesse Fink pubblica Bon: The Last Highway, libro nel quale, citando a più riprese le parole di diversi “ospiti” mette in discussione la versione...

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ufficiale raccontata alle autorità da Alistair Kinnear, amico di Scott e proprietario dell’auto nella quale il cantante viene ritrovato. La versione di Kinnear racconta che la sera del 18 febbraio 1980 lui e Scott stavano rincasando dopo un concerto al Music Machine, e che proprio nel tragitto in automobile Scott si fosse assopito per aver bevuto troppo. Dopo essere stato rassicurato da Silver (la compagna di Scott al tempo) riguardo al fatto che Scott era solito “spegnersi” dopo una nottata del genere, Kinnear lascia Scott a dormire in macchina avvolto in una coperta, per trovarlo senza vita la mattina successiva. Stando al libro di Fink esisterebbe invece una storia parallela secondo la quale la sera precedente alla sua scomparsa Scott sarebbe stato in compagnia di almeno altre tre persone: Kinnear, ma anche Zena Kakoulli ed il marito Peter Perrett, entrambi esclusi dagli altri racconti. Fink è anche colui che avanza e sostiene con forza l’ipotesi della morte di Scott per soffocamento dovuto al suo stesso vomito, ipotesi che a più mandate è stata messa in discussione anche da personaggi illustri e vicini a Scott come Ozzy Osbourne.

 

Il testo di quel brano mi venne in mente proprio per causa della morte di Bon Scott, il cantante originale degli AC/DC, che era da poco morto per abuso di alcol. - racconta Ozzy in una storica intervista nella quale parla della gestazione del brano Suicide Solution (1980, Blizzard of Ozz ) - In realtà però Bon è morto per ipotermia nell’auto dove è stato trovato. Era ubriaco quando si è addormentato nella sua auto, e non si è più svegliato… era inverno ed è morto congelato. Ad ogni modo era incosciente a causa del troppo alcol che aveva in corpo.

 

Negli anni la verità si è mescolata alla leggenda, ma anche a fronte dei fatti confermati dai report, la morte di Bon Scott rimane comunque un evento destabilizzante su più fronti, in primis in virtù dell’impatto devastante che avrebbe potuto avere sul futuro degli AC/DC. Quella di Bon Scott per la band è una perdita che va oltre la scomparsa di un componente chiave del sound e della proposta del gruppo, è la scomparsa di un membro di una famiglia che fino a quel momento è riuscita a brillare nel panorama rock per essere uno degli esperimenti più inattesi, ed allo stesso tempo genuini, mai registrati. Scott è l’emblema di quell’esperimento, perché se i suoi compagni di gruppo si infiammano sul palcoscenico, lui è la scheggia impazzita che tanto perfettamente riassume l’essenza stessa della musica firmata AC/DC. All’alba della dipartita di Scott la band aveva appena visto finalmente realizzato quel sogno iniziato quando George Young, fratello maggiore di Malcom e Angus, li aveva ispirati nel cercare la propria via nella musica. Highway To Hell non è soltanto il nome di quel sogno, ma è anche l’album che per molti versi cristallizza nella storia della musica il sound degli AC/DC nella loro proiezione più pura.

 

Febbraio del 2020, ricorre il 40 anniversario della scomparsa di Bon Scott, ed anche dopo così tanti anni ci sono fan in tutto il mondo pronti a giurare che proprio quella con Scott alla voce fu l’ultima vera, grandiosa, manifestazione della band australiana. L’amore per la personalità di Bon Scott e per la sua presenza sul palco, così come per l’importanza rappresentata dal suo ruolo, è stato tale che il suo ricordo ha guadagnato nel tempo lo status di leggenda. Come è stato possibile? Semplice, è stato semplice, più che possibile. La band è di quelle senza fronzoli, di quelle minimali ed elementari. Sfacciatamente onesti, innamorati di quel rock basilare che è l’unica cosa che sanno portare sul palcoscenico con convinzione e determinazione. Allo stesso tempo però nessun altro riesce a replicare la “semplice” formula degli AC/DC senza incappare in qualche tipo di scivolone. Perché la semplicità non è mai facile, e Bon Scott ne è la conferma.

 

La personalità sonora di Scott non ha nulla di estremamente complesso, anzi, spesso è erroneamente paragonata a quella di chi si improvvisa capace di ricoprire il ruolo di frontman, eppure riesce a imporsi sempre per unicità e carattere. Scott è un cantante onesto, dalla personalità trasparente, e la band della quale è il portabandiera ne è la perfetta controparte strumentale. Come è possibile quindi resistere allo smembramento di un’unione così idilliaca come quella rappresentata da Bon Scott, Phil Rudd, Cliff Williams e i fratelli Young?

 

In quei momenti non sai mai cosa fare. Non sai cosa succederà e non sai quale piega potranno prendere le cose. - ha detto Angus Young a proposito del periodo seguente la scomparsa di Scott - Si è trattato un po’ di una scommessa contro noi stessi… davvero non sapevamo assolutamente come avremmo potuto continuare. Inoltre non sapevamo come i fan avrebbero accettato l’idea di una band senza Bon… riusciranno mai ad accettare qualcun altro al suo posto?

 

Proprio questo interrogativo rischia di rompere per sempre gli AC/DC, ma la storia ci insegna che le cose sono fortunatamente andate in un altro modo. A spingere la band verso il futuro è anche la famiglia stessa di Scott, che ricopre un ruolo fondamentale nel convincere Phil, Cliff, Malcom e Angus a portare avanti il progetto che Bon aveva amato così tanto. La risposta del gruppo alla tragedia che sembra volerlo affondare è Brian Johnson, che si dimostra fin da subito un cantante dichiaratamente diverso da Scott, ma che allo stesso modo mette subito in chiaro di essere pronto a dare tutto e di saper mettere il proprio cuore al pieno servizio del progetto.

 

C’era una pressione incredibile su di noi - ha detto sempre Angus - ed allo stesso tempo c’era una pressione ancora più alta su Brian. Tutti sapevamo di voler far funzionare le cose, questo è quello che so per certo, non so dire molto altro su quello che in quel momento passava per le nostre teste.

 

Si potrebbero spendere pagine su pagine (oltre a tutte quelle che sono già state scritte, lette, discusse, dibattute e strappate) per dilungarsi sulle ineludibili differenze fra Bon Scott e Brian Johnson. Due facce della stessa medaglia, due voci della stessa grande avventura chiamata AC/DC… ma sarebbe realmente futile. La verità è che i puristi non smetteranno mai di preferire Scott, e che molti altri probabilmente sapranno trovare in Johnson il frontman perfetto, quello che ci interessa celebrare è una storia che ha dell’incredibile. Sì, perché gli AC/DC hanno saputo trasformare la scomparsa di Scott in quella devastante forza di propulsione che gli ha permesso di rinascere dalle ceneri alle quali molti li avevano condannati la mattina stessa del 19 febbraio 1980.

Per fare ciò non basta però la voglia, non basta l’orgoglio, e non basta la volontà di rendere onore ad un fratello scomparso. Serve un album, e non un album qualsiasi. Serve quell’album inconfutabile ed inscalfibile, serve qualcosa di eterno come la morte e di forte come la vita, un album che si sprigioni proprio dalla dicotomia luce-ombra.

 

Back In Black è un miracolo. E qui potremmo anche concludere le nostre parole sull’album che ha cambiato la vita degli AC/DC, proiettandoli nel futuro. A distanza di poco meno di quarant’anni dall’uscita del settimo album della band australiana, tutto ha ancora dell’impossibile. Provate ad immaginare di rivivere il momento peggiore della vostra vita, o semplicemente di trovarvi senza vie di fuga da una fine ineluttabile, a ciò aggiungete quindi di avere pressoché chiunque pronto a remare contro ogni vostra proposta alternativa… e ora provate ad immaginare, proprio nel mezzo di quell’inferno, di iniziare a scrivere quello che deve essere l’album della vostra vita.

 

A più mandate i fratelli Young, così come lo stesso Brian Johnson, hanno spiegato come tutto sia da attribuire alle energie generate dall’affrontare la scomparsa di Scott e dalla voglia di rendergli onore, ma è comunque difficile ignorare il fatto che se poco prima l’universo sembrava aver tramato senza riserve contro la band, con Back In Black la stava premiando per la tenacia dimostrata.

Dieci tracce scure, nere come la copertina che cinque mesi dopo la morte di Scott si presenta al mondo in tutta la sua estrema semplicità. Dieci tracce per una scaletta che ancora oggi, a quarant’anni di distanza, è in grado di far tremare le pareti ogni volta che le campane di Hell’s Bells fanno ascoltare i propri rintocchi nei primi secondi che segnano il nuovo corso degli AC/DC.

 

In Back in Black c’è molto più di Bon Scott di quanto la superficie non lasci intravedere. Scott è in Back in Black tanto quanto Brian Johnson ed i suoi nuovi compagni, ed è proprio quello il motivo per cui ancora oggi l’album mantiene così forte la sua carica emozionale. Quando ci si avvicina alla discografia degli AC/DC succede qualcosa di particolare nel momento in cui si vada ad incontrare Back in Black, sia che si venga dall’ascolto dei precedenti lavori con Scott, sia che si familiarizzi con esso dopo aver scoperto i futuri risvolti sonori con Johnson. Quel qualcosa di speciale, quello “zing”, risiede proprio nell’anima emotiva di una band che, in entrambe le sue formazioni principali, ha sempre saputo farsi amare per aver messo in campo tutto quello che c’era da spendere: sangue, sudore e vita.


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