JAMIROQUAI Automaton

di Francesco Sicheri
18 giugno 2017

recensione

JAMIROQUAI
Automaton
Universal
Al momento della sua presentazione Automaton è stato lanciato come il disco che tutti si aspettavano, ovvero un album di caratura superiore alla media. I Jamiroquai, e Jay Kay in particolare, non hanno mai avuto nulla a che fare con la mediocrità o con la consuetudine, ed infatti fin dal loro debutto hanno imposto sonorità che anche a distanza di anni sono in grado di affrontare lo scorrere del tempo con decisione.

Quella di un sound inconfondibile è una delle prime qualità di chi osa, prova, e dismette i panni dell’esecutore per vestire quelli della ricerca artistica, ed i Jamiroquai hanno sempre fatto questo. L’unione di suono e immagine prodottasi in un turbine di incarnazioni diverse a seconda dell’occasione, ha creato un mondo esperienziale in grado di elevare la band ed il suo condottiero su di un piano separato dal resto del pianeta musica.

L’arrivo nei negozi di Automaton è quindi stato vissuto dagli addetti del settore, e dai fan, con il più che meritato grado di trepidazione, caratteristica che da sola nel 2017 potrebbe dirla lunga sull’importanza del gruppo.

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Jay Kay e la sua ciurma hanno avuto modo di dare sfogo a deviazioni musicali collaterali (si pensi agli Shuffler di Harris, Turner e McKenzie), così come di ricaricare le energie in vista di un comeback discografico degno del nome del gruppo. Shake It On apre le danze (ed è proprio il caso di dirlo) riportando immediatamente la memoria ai fasti di brani quali Virtual Insanity o Revolution 1993, ma è il mood sonoro a dare immediatamente segnali di un aggiornamento di sistema che vede Jay Kay migrare dalle piume del buffalo hat ad un nuovo cappello di cristalli rgb (Cloud 9, teaser dell’album, ne è la prova più concreta).

Automaton mostra i muscoli, il groove della band è robusto quanto mai prima d’ora, la sempre più stretta collaborazione di Jay con il tastierista Matt Johnson si fa sentire in maniera energica nella produzione, che immerge la roboante piattaforma funk di McKenzie e Turner in un liquido sintetico-elettronico (Superfresh, Hot Property, Dr. Buzz, ne sono ottimi esempi). La chitarra di Rob Harris, sempre strettamente legata al repertorio Motown che l’ha forgiata, svolge il suo lavoro con l’immancabile gusto e classe che contraddistingue il musicista inglese, parte della band dal 2000. Venticinque anni di storia ed è ancora grande la sorpresa derivante da un nuovo album firmato Jamiroquai, Automaton è un album dai troppi punti di forza perché lo si possa riassumere in poche righe, soprattutto perché dietro l’apparente e ballabile semplicità, si nasconde (come dimostrato da sempre) il lavoro di un ensemble di musicisti sopraffini. Prestare il tempo di un ascolto è doveroso.

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