Rick Springfield "The Snake King"

recensione
"Human Touch", "Don’t Talk To Strangers", "Kristina", "Affair of the Heart", "Love Somebody", "Our Ship’s Sinking", "What’s Victoria’s Secret", ed ovviamente "Jessie’s Girl", il numero di hit firmate da Rick Springfield è veramente enorme, alla pari dei demoni che per molto tempo hanno afflitto la vita personale del nostro. Nel 2018, a due anni di distanza da "Rocket Science", Springfield è tornato a farsi sentire con un album che vorrebbe proprio andare ad esorcizzare il suo lato più oscuro, più tetro e meno evidente ai riflettori sotto cui è rimasto esposto per lungo tempo.
Malgrado la sua carriera musicale abbia trovato la propria via grazie ad una miscela di rock e pop dalle sonorità giocose e sferzanti (coadiuvata anche dalla carriera come attore nel dipingere un quadro generale a tratti frivolo), Springfield ha maturato il giusto bagaglio d’esperienze e di chilometri necessario ad affrontare una delle sfide più ardue. "The Snake King" si presenta come la virata “blues” dell’artista australiano, un lavoro che giungendo a questo punto della vita di...
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Springfield vuole riaffermare quelle che sono le radici da cui la sua intera avventura è partita.
I puristi ed i conservatori più esigenti si guardino però dal prendere in mano "The Snake King" riservandogli facile confidenza, perché l’album in questione si cala nell’avventura blues portando con sé un’ottima dose di classic rock e refrain ammiccanti. Ciò non esclude il fatto che le dodici tracce di "The Snake King" non fanno sconti per nessuno, andando a toccare territori scomodi ed a tratti problematici. "God Don’t Care", "Judas Tree", The Devil That You Know, Blues For The Disillusioned, sono solo alcuni dei brani che danno spazio ad un ampio range emotivo tradotto in chiave rock–blues dal nostro, il quale con un brano coraggioso come Suicide Manifesto, lascia parlare anche la cruda dichiarazione di ciò che durante l’anno scorso ha preso il sopravvento nella sua vita.
The Snake King offre all’ascolto un Rick Springfield diverso dal solito, indubbiamente meno spavaldo e più a contatto con il proprio essere terreno. Il tributo alla musica che lo ha ispirato fin da giovane arriva chiaro e diretto, senza però sfociare in un album che in maniera meccanica va a riprendere e riutilizzare gli stilemi del genere. Non siamo di fronte ad un album senza sbavature, la stessa lunghezza della tracklist non giova certo all’esperienza di ascolto, ma Springfield è comunque riuscito a dare alle stampe un lavoro onesto e coerente con ciò che età ed esperienza dettano a questo punto della sua carriera.
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